Sona the Other Myself è l’ideale seguito di Dear Pyongyang (2005) in cui la zainichi(come sono chiamati i figli di immigrati coreani residenti in Giappone) YangYong-hi raccontava, nella forma del documentario, la vita del padre, militantea sostegno della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Se il primo dei due film si ambientavasoprattutto a Osaka, il secondo fa di invece di Pyongyang il suo luogoprivilegiato. La Sona del titolo è la nipote della regista, che lì vive insiemeai suoi familiari. Il film si struttura lungo un periodo che va dal 1995 al2004 e documenta, soprattutto, le visite di Yang Yong-hi alla nipote. Il metododella regista è lo stesso del film precedente: la videocamera non è mainascosta, né allo sguardo dello spettatore, né a quello di chi è ripreso,divenendo così un elemento che interagisce con le situazioni rappresentate;dietro il suo obiettivo, la regista dialoga con i vari “personaggi” che a lorovolta le si rivolgono apertamente. L’intento principale della Yang è quello dirappresentare la nipote Sona come un suo possibile alter ego, vedendonella realtà della ragazza (la vita diquesta a Pyongyang) una situazione che avrebbe potuto anche essere la sua (sesolo il padre avesse deciso di mandare anche lei, come fece per i suoifratelli, a vivere in Corea del Nord). Ciò si traduce in uno sguardo piùgenerale sulla società nordcoreana, che passa attraverso le riprese degliesterni della capitale, con i suoi edifici che ricordano i palazzonidell’architettura sovietica, le strade ancora quasi prive di traffico (uno deipochi aspetti positivi del socialismo reale), le celebrazioni pubbliche in onoredel Caro Leader Kim Jong-il («Da venti anni sempre le stesse», commenta la vocefuori campo della regista). Le differenze fra la vita in un paese a regimetotalitario e quella in una società democratica passano attraverso piccolifatti e osservazioni sottili, come quando la regista fa notare alla nipote cheil Mickey Mouse che ha disegnato sulle calze è un personaggio americano equesta risponde che loro «non lo sanno». Oppure quando Sona invita la zia aspegnere la sua videocamera e il dialogo successivo è rappresentato da unaserie di didascalie che si sovrappongonoa uno schermo nero: qui la Yong-hi cita alcuni famosi musical hollywoodiani,come Chicago e Cabaret, e la risposta della nipote si traduce in tre puntiinterrogativi, a indicare la sua totale ignoranza al riguardo. Altrettantorilevanti le scene in cui, grazie alla presenza della zia, la piccola Sona puòrecarsi nei negozi riservati alla valuta straniera (in particolare allo yen),e, soprattutto, quella del ristorante, dove la ragazza medita e discute a lungoprima di decidere che cosa ordinare (la scelta cadrà sulla pizza e il topokki, un tipico piatto sudcoreano chela bambina assaggia qui per la prima volta nella sua vita). Un altro momentoimportante è quello in cui Yang accompagna Sona a scuola, e davanti al cancellodell’edificio un gruppo di bambini, con i loro immancabili foulard rossi, siavvicinano alla videocamera con uno sguardo in cui la curiosità si mescola altimore per un oggetto che non appartiene di certo al loro mondo quotidiano.L’estraneità che essi vivono non è però qualcosa di esclusivamente peculiare aloro, dal momento che – come la stessa regista confessa – è un sentimento che anche questa, dietro lasua videocamera, avverte in relazione alla realtà che le sta davanti (quasi avoler sottolineare le difficoltà stesse del “fare documentario”). [DarioTomasi]
Sona the Other Myself è l’ideale seguito di Dear Pyongyang (2005) in cui la zainichi(come sono chiamati i figli di immigrati coreani residenti in Giappone) YangYong-hi raccontava, nella forma del documentario, la vita del padre, militantea sostegno della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Se il primo dei due film si ambientavasoprattutto a Osaka, il secondo fa di invece di Pyongyang il suo luogoprivilegiato. La Sona del titolo è la nipote della regista, che lì vive insiemeai suoi familiari. Il film si struttura lungo un periodo che va dal 1995 al2004 e documenta, soprattutto, le visite di Yang Yong-hi alla nipote. Il metododella regista è lo stesso del film precedente: la videocamera non è mainascosta, né allo sguardo dello spettatore, né a quello di chi è ripreso,divenendo così un elemento che interagisce con le situazioni rappresentate;dietro il suo obiettivo, la regista dialoga con i vari “personaggi” che a lorovolta le si rivolgono apertamente. L’intento principale della Yang è quello dirappresentare la nipote Sona come un suo possibile alter ego, vedendonella realtà della ragazza (la vita diquesta a Pyongyang) una situazione che avrebbe potuto anche essere la sua (sesolo il padre avesse deciso di mandare anche lei, come fece per i suoifratelli, a vivere in Corea del Nord). Ciò si traduce in uno sguardo piùgenerale sulla società nordcoreana, che passa attraverso le riprese degliesterni della capitale, con i suoi edifici che ricordano i palazzonidell’architettura sovietica, le strade ancora quasi prive di traffico (uno deipochi aspetti positivi del socialismo reale), le celebrazioni pubbliche in onoredel Caro Leader Kim Jong-il («Da venti anni sempre le stesse», commenta la vocefuori campo della regista). Le differenze fra la vita in un paese a regimetotalitario e quella in una società democratica passano attraverso piccolifatti e osservazioni sottili, come quando la regista fa notare alla nipote cheil Mickey Mouse che ha disegnato sulle calze è un personaggio americano equesta risponde che loro «non lo sanno». Oppure quando Sona invita la zia aspegnere la sua videocamera e il dialogo successivo è rappresentato da unaserie di didascalie che si sovrappongonoa uno schermo nero: qui la Yong-hi cita alcuni famosi musical hollywoodiani,come Chicago e Cabaret, e la risposta della nipote si traduce in tre puntiinterrogativi, a indicare la sua totale ignoranza al riguardo. Altrettantorilevanti le scene in cui, grazie alla presenza della zia, la piccola Sona puòrecarsi nei negozi riservati alla valuta straniera (in particolare allo yen),e, soprattutto, quella del ristorante, dove la ragazza medita e discute a lungoprima di decidere che cosa ordinare (la scelta cadrà sulla pizza e il topokki, un tipico piatto sudcoreano chela bambina assaggia qui per la prima volta nella sua vita). Un altro momentoimportante è quello in cui Yang accompagna Sona a scuola, e davanti al cancellodell’edificio un gruppo di bambini, con i loro immancabili foulard rossi, siavvicinano alla videocamera con uno sguardo in cui la curiosità si mescola altimore per un oggetto che non appartiene di certo al loro mondo quotidiano.L’estraneità che essi vivono non è però qualcosa di esclusivamente peculiare aloro, dal momento che – come la stessa regista confessa – è un sentimento che anche questa, dietro lasua videocamera, avverte in relazione alla realtà che le sta davanti (quasi avoler sottolineare le difficoltà stesse del “fare documentario”). [DarioTomasi]
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