Thomas Vinterberg torna a esplorare l'equilibrio precario dei nuclei famigliari, ampliato nel concetto di comune. Figlio dei resti del retaggio Dogma e di un'ispirazione autobiografica, Kollektivet è un film potente e caustico in pieno stile Vinterberg.
Erik (Ulrich Thomsen), un affermato professore di architettura, eredita la grande villa del padre ad Hellerup (poco sopra Copenaghen), luogo caro della sua infanzia. La casa è molto grande, circa 450 metri quadrati più giardino, ed Erik è convinto che per lui, sua moglie Anna (che lavora come volto di una nota TV danese) e la figlia adolescente Freja sia troppo dispersiva e costosa. Ma Anna è contraria. Talmente eccitata all'idea di fare qualcosa di nuovo e spronata dal pensiero di ravvivare la vita di coppia, Anna proporrà al marito di 'invitare' alla convivenza altre persone, perlopiù amici della coppia, il che consentirebbe anche di dividere le spese e rendere i costi accessibili. Dapprima restio, Erik si farà poi trascinare dall'entusiasmo di Anna, splendida donna dal carattere vivo e conciliante, in quel 'bizzarro' progetto. Una sorta di selezione dei coinquilini sarà dunque il preludio a una vita di gruppo, circa una decina di persone che abbracceranno con spensierata sollecitudine l'idea di quella Comune ( Kollektivet). D'altronde siamo nella Danimarca primi anni '70 e il concetto di condivisione ed equa ripartizione di cose e situazioni appare tutto sommato come un esperimento percorribile. Ma l'allegra comitiva dei primi momenti (i bagni tutti insieme e nella completa nudità dei corpi nel vicino stretto di Öresund) lascerà ben presto il passo a un convivere di tensioni e malumori generati proprio dalla nascente crisi di coppia tra Erik e Anna. Saranno infatti le esigenze private e personali di uno (la nuova relazione di Erik) a minare l'equilibrio intero dell'idea di Comune, che nella metafora di famiglia allargata subirà la crisi e il cedimento alla stessa stregua del nucleo principale che affianca. Si acuirà a quel punto quella percezione di adulti in preda a pulsioni adolescenziali e atteggiamenti egoistici, e nemmeno le 'riunioni casalinghe' e la prassi democratica delle votazioni riusciranno ad arginare l'imminente terremoto collettivo. A filtrare, metabolizzare e in qualche modo stemperare gli alti e bassi di questo terreno minato, sarà infine la giovane Freja, con la sua spiccata sensibilità e quell'approccio genuino alle cose e ai problemi tipico dell'età. Lei, bambina tra adulti e - in quanto figlia - vittima più degli altri di un profondo coinvolgimento emotivo, sarà suo malgrado l'occhio vigile e silente in grado di invertire la rotta della comune a un passo dal tracollo.
Folle e geniale Vinterberg
Ancora una 'festa' in famiglia per il quarantaseienne regista danese. Le famiglie si allargano, si ampliano, ai aprono a nuove forme, e si ricompongono, ma la complessità delle dinamiche che le fondano sono sempre le stesse. Equilibri precari pronti a deflagrare in un attimo e ad avvolgere tutti della loro lava caustica. Da quell'esordio spiazzante, folgorante, insidioso sono passati quasi vent'anni ma l'idea di Festen e dei legami che traballano (anzi, sfregiano e massacrano) è ancora lì, come è ancora lì Ulrich Thomsen che da figlio maggiore diventa padre ma resta detonatore della storia e si tiene addosso tutto il dramma di un contesto famigliare mai metabolizzato. Insidioso e graffiante come pochi registi sanno essere, Vinterberg interpreta la cultura e la tradizione scandinava mischiando uno humour e un senso del dramma del tutto particolari, ma sempre assai incisivi, viscerali. In Kollektivet, il passaggio repentino dall'armonia di gruppo alla deflagrazione del dramma, crea quella cesura netta, quella capacità di straniare da sempre tanto cara al regista danese. Ancora una volta la decostruzione dei rapporti all'interno di una dinamica che dalla famiglia ingloba poi anche altro (e altri) rappresenta quel percorso inverso che da un concetto di altruismo e generosità sfacciate offre poi il suo rovescio della medaglia, un egoismo esasperato che alimenta tensioni e recriminazioni di ogni sorta. Il tutto avvolto in una dimensione quasi astratta di luce e musica (ottimamente dosate e integrate, ancora un vago retaggio dell'estetica Dogma), a creare una sorta di manto nuvoloso attraverso il quale osservare in maniera quasi ovattata il dramma umano che va in scena tra le mura di una casa e attorno a una tavola imbandita, dove nel bene o nel male si riuniscono sempre tutti. Un film di quelli decisamente nelle corde di Vinterberg (come lo era anche Il sospetto) e dunque capaci di alimentare disagio acuto, malessere, e inquietudine. L'ottimo cast (su tutti il già citato Thomsen, maschera perfetta del cinema "vinterberghiano", Trine Dyrholm nei panni della moglie Anna e la piccola Martha Sofie Wallstrøm Hansen nei panni più che giudiziosi di Freja) veste alla perfezione il quadro di disagi messo in piedi da Vinterberg, una nuova traumatica lezione sul bipolarismo e sulla corrosività della natura umana.
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