Koreeda Hirokazu's Without Memory (記憶が失われた時, Kioku ga ushinawareta toki). Regia, sceneggiatura e montaggio: Koreeda Hirokazu. Fotografia: Honda Shigeru. Musica: Kasamatsu Yasuhiro. Suono: Matoike Masaru. Produzione: TV Man Union, NHK Enterprise. Durata: 84’.
Sekine Hiroshi è un uomo che, a seguito di una scorretta terapia post-operatoria, perde l’uso della memoria “episodica”, vale a dire che il suo cervello non riesce più a creare e trattenere ricordi, dal momento dell’operazione in poi. Koreeda e la sua troupe lo incontrano da Aprile 1994 a Luglio 1996 e durante questo lungo periodo il regista lo intervista, lo riprende insieme alla moglie e ai figli (anche alla nuova nata, che la coppia avrà a Settembre del 1995), lo segue in alcune attività, come le uscite con uno dei figli, alla festa di Tanabata, oppure durante gli esami in ospedale, o nel tempo libero con gli amici.
Il film documenta i diversi momenti della giornata dell’uomo, da quello in cui si alza e deve “ricostruire”, con fatica, una sorta di consapevolezza di sé e dell’ambiente che lo circonda. Lo fa tramite i biglietti, che, insieme alla moglie, sparge in ogni punto della casa, redige giornalmente un diario delle proprie attività e si avvale anche delle riprese con una videocamera che lo stesso Koreeda suggerisce ai Sekine di utilizzare. Una voce fuori campo riporta poi i diversi momenti della battaglia anche legale della famiglia: la causa promossa nei confronti della struttura sanitaria nella quale era stato operato, il travaglio per poter ottenere legale riconoscimento dei danni provocati dalla cura sbagliata.
L’uomo, che non può più svolgere un’attività lavorativa, si dedica al volontariato a favore di persone disabili. L’opera si conclude con la ripresa della famiglia che si concede una giornata di svago a pescare.
Without Memory inizia con le immagini di una radiografia al cervello mentre una voce fuori campo afferma: «Mentre viviamo, i ricordi delle esperienze piacevoli e spiacevoli si accumulano nel nostro cervello. Questi ricordi sono fondamentali per la nostra identità».
Siamo agli inizi della carriera di Koreeda, ma è chiaro fin da questo momento quale sia uno dei temi più cari al regista, quello che verrà ribadito e approfondito in diverse opere successive, da Maborosi ad After Life, fino ad arrivare a quelle più recenti, come Still Walking: la memoria connessa all’identità. Sekine Hiroshi è un uomo la cui menomazione ha il potere nefasto di incrinare anche la sua consapevolezza di essere la persona che è, con la sua storia e la sua, appunto, identità. Lui stesso, in una delle tante sequenze toccanti di questo film, si dichiara contento che non si tratti di un’amnesia, e di aver quindi conservato almeno trent’anni della propria storia. Koreeda riprende con estrema sensibilità un uomo confuso, che non distingue il sogno dal ricordo e proprio il suo volto mite e sorridente infonde ancora più angoscia nel momento in cui gli sentiamo chiedere se ciò che sta vivendo sia realtà.
Le riprese insistono su frequenti primi piani di Sekine, la macchina da presa lo segue nell’interno domestico, soffermandosi in inquadrature fisse sugli oggetti che dovrebbero far parte della storia e della vita dell’uomo - i panni stesi, la vaschetta del pesce - e che forse invece lui vive come alieni.
Il regista indaga il rapporto familiare, facendo emergere l’importanza dell’affetto tra i membri della famiglia: la moglie in particolare, sempre presente nella sua calma coraggiosa, supporta il marito in ogni momento della giornata, Koreeda la riprende mentre lo assiste nella redazione delle note che dovrebbero servire a farlo ricordare, mentre risponde con calma alle domande disperate sul suo stato: «ridi, altrimenti esco e mi metto ad urlare….» gli dice lui con un tono che vorrebbe suonare scherzoso, ma è invece colmo di ansia.
È come se l’uomo vivesse in uno stato di limbo, lui stesso ad un certo punto lo conferma chiaramente: «confondo sogno e realtà», e allora mi sembra interessante che Koreeda insista con diverse inquadrature che ritraggono solo ombre: che si tratti dei panni stesi che si muovono a causa della brezza, o, soprattutto, delle sagome delle figure di Sekine e del figlio che camminano, è come se la “consistenza” umana di Sekine stesse in un certo senso scomparendo, lasciandolo vivere come essere privo di struttura (le sue memorie) in un mondo irreale.
Sekine si fa forza dei ricordi dei suoi familiari, conta su questi, dato che non può più farlo con i suoi, per fondare la propria identità. E la famiglia è la vera forza di quest’uomo che altrimenti rischierebbe di “svanire” nel nulla: il regista raccoglie ogni gesto, ogni accenno, come quando Sekine si riferisce alla bambina appena nata, della quale non ricorda il giorno in cui è venuta al mondo, dicendo che prova nei suoi confronti un «senso di ansia ed incanto».
La macchina da presa si inserisce nella quotidianità della loro vita, e il regista, da solo o con la troupe, interagisce con le riprese, svelando il segno della rappresentazione, apparendo in alcune inquadrature.
Il documentario si concentra sulla storia personale di Sekine, ma non per questo non se ne percepisce una critica più ampia per ciò che è accaduto. L’uomo ad un certo punto vede la propria pratica di invalidità rifiutata, perché viene ritenuto autosufficiente ed allora farà causa all’ospedale dove è stato operato. La voce fuori campo precisa che il suo non è l’unico caso del genere, e che la mancanza di cure appropriate sarebbe da imputare a tagli di fondi economici per il settore della sanità pubblica.
Proprio sul finale viene dato atto che, sei mesi dopo il programma, il Ministero della Sanità riconobbe il danno causato a tante vite umane dalle terapie scorrette. Da notare che Koreeda avrebbe voluto una conclusione più realistica, che mettesse in evidenza quanto poco fosse cambiato nella situazione di Sekine Hiroshi dall’inizio delle riprese. La stazione televisiva che avrebbe messo in onda il film non fu d’accordo e quindi il regista decise di chiudere l’opera con la considerazione sulla memoria dell’uomo “supportata” da quella dei suoi familiari.[Claudia Bertolè]