Kos - 2

Da Euge

Achiropìta scendevalentamente la stradina che dal resort portava al porto vecchio,lastricata di piccoli ciottoli bianchi, resi lisci dal tempo.Camminava lentamente, misurando un passo dopo l'altro, seguendo conla mente certi suoi disegni che indovinava nelle linee fra i sassi, imargini dei quali non voleva assolutamente calpestare.Questo la aiutava asvuotare la mente completamente, così come quando lavava montagne dipiatti, e quella mattina anche a concentrarsi su un unico pensiero. Si domandava il senso diquello che era successo, e soprattutto il fine, ma non riusciva atrovare risposta. Era profondamente impaurita dal fatto di essersiabbandonata completamente, anche se solo per qualche ora: avevaancora addosso tutte le cicatrici del passato, quando, sempresbagliando, si era immaginata di avere finalmente trovato la suamezza mela, e aveva preso certe sonorissime facciate il cui rimbombole era ancora nelle orecchie. Tutte quelle cicatrici non sarebberoandate più via, e la più recente addirittura colava ancora alcunegocce di sangue. Non se la sentiva propriodi rimettersi in gioco, troppo era stato il dolore e poca , e breve,la gioia. Fra l'altro c'era tutto il resto, i figli soprattutto, quelmiserabile ma necessario lavoro e quel meraviglioso sogno cheaccarezzava ogni sera prima di addormentarsi, quello di un fornotutto suo.D'altro canto quell'uomoera riuscito ad incantarla. Non solo la sua vicinanza era piacevoleda morire, e le storie che raccontava erano magicamente trasfiguratenelle sue parole, ma essergli accanto le dava tranquillità e fiducianel futuro, sensazioni che non aveva fino ad allora conosciuto. Maile era successo di cedere al primo appuntamento, anche se spesso erastata lei a decidere l'intimità. Ma iersera tutto era stato diverso.Camminava e pensava,assorta, fino a che un ciottolo più sporgente degli altri non lafece scivolare, cadendo per fortuna sulla parte più morbida estrappandole un piccolo sorriso.Decise improvvisamenteche sarebbe andata da Maia. C'era solo qualche rampa di scale da faree poi sarebbe arrivata. Maia era la donna con ilterzo occhio, e più di una volta l'aveva aiutata a capire cosa avevadentro il cuore. Di lei nessuno sapeva nulla se non il posto doveabitava, che era casa e studio a un tempo, e anche punto di appoggioper gatti randagi bisognosi di cure. Maia era una donna senza età,con il viso come quello delle Sibille della cappella Sistina, solcatodalla vita, ma principalmente dai racconti delle vite degli altri.Faceva le carte, solo agli amici, e barattava la sua conoscenza delfuturo per un po' di cibo per gatti. Ma soprattutto aveva le parolegiuste per spingerti a percorrere il tuo destino. Anche lei facevaparte del mito, del resto come tutto in quell'isola della Grecia.Achiropìta entrò esubito fu prese alla gola da un odore vagamente dolciastro,quell'odore della carne troppo frollata, quella che Maia dava ai suoigatti. “Ti aspettavo”, sisentì dire da dietro una tenda, ed ebbe subito un tuffo al cuore.Era tanto che non andava da Maia e già questo era per lei un segnoche qualcosa sarebbe successo, così come era la più lampantedimostrazione che Maia aveva davvero il terzo occhio.“Come stai, piccolamia?” Maia le venne incontro a braccia aperte, con una gattadolcemente agganciata alle sue spalle. “Ciao Maia, sai che quandovengo da te è perchè non sto bene”, “lo so bene, siediti che cibeviamo un ouzo, quello che mi mandano da Lesbo, poi mi racconterai”.Intanto che bevevalucidava le idee su quell'uomo e su quello che avrebbe raccontato, eper un attimo si domandò se aveva fatto bene ad andare lì, o se nonfosse stato meglio non pensarci più, da subito. Ma era seduta lì eMaia non era solo la donna dal terzo occhio, era per lei quasi unamadre, e le voleva un bene dell'anima. Achiropìta non avevaconosciuto la mamma, fuggita subito dopo il parto, e crescere solocon il padre era stato difficile, anche se c'era in qualche modoriuscita, ma non come come avrebbe voluto che fosse.Incominciò allora araccontare di quell'uomo, del loro primo incontro, e di come il suoparlare, forse un po' troppo da signore, l'avesse colpita. Nonl'aveva facilmente dimenticato e nei giorni successivi l'avevaguardato da lontano, per capire che tipo potesse essere, senzaperaltro capire, perchè sul lavoro era efficiente e irreprensibile.Si capiva che cucinava animato da una grande passione, e tutte lecose che preparava, anche lei era riuscita ad assaggiare qualcosa,avevano il sapore dell'amore che ci aveva messo nel cucinarle. Anchenel rapporto con i suoi sottoposti era certamente strano: vi eranogiorni in cui sembrava che fossero amiconi e le battute e le risatesi sprecavano, vi erano poi dei giorni in cui la luna sembrava averemodificato irrimediabilmente il suo atteggiamento, immotivatamenteimmusonito e triste. Terribile questa luna, che anche a lei facevaspesso l'effetto di svegliarsi una mattina con una tristezza salatadentro il cuore di cui non riusciva a liberarsi.Le raccontò anche dicome fosse rimasta sorpresa, perchè non se lo sarebbe mai aspettato,quando lui le chiese di prendere l'aperitivo insieme e di come, perproteggersi, gli avesse detto che non poteva stare oltre le sette,quando invece non aveva niente da fare. E di come era stata bene, suquella seggiola traballante, e soprattutto di come era stato facileaprirsi con lui e parlare liberamente, cosa che non succedeva datroppo tempo. La sensazione di leggerezza l'aveva aiutata a decidere,e quando lui le aveva cinto la vita con il braccio aveva avuto unsussulto di gioia. Non dimenticò di dire che avevano passato lanotte insieme, ma si rese conto che Maia lo sapeva già.Maia la guardavaraccontare e gesticolare animatamente, e quel pulcino dalla testanera sempre arruffata le faceva, ogni volta che la incontrava, grandetenerezza. Le voleva bene e non voleva proprio che soffrisse ancora:sapeva però che Achiropìta aveva la testa dura più del marmo, eche se avesse deciso di iniziare una nuova storia nulla e nessunol'avrebbe distolta, anche a costo di andare incontro alla propriarovina. Quest'uomo poi la incuriosiva: mai Achiropìta era stata cosìprecisa e entusiasta nel descriverle qualcuno.Capì che avrebbe dovuto,in caso di cattive notizie, aggiustare quello che le avrebbero dettole carte. Sparecchiato il tavolinoincominciò a mescolare le carte, puntigliosamente come al solito,dedicando a quell'attività tutto il tempo che riteneva necessario,con lentezza, sempre con la stessa sequenza di movimenti. Quel mazzodi tarocchi, ingiallito e quasi ammuffito, le era stato regalato dauna zingara serba, di ritorno dalla festa delle Saintes Maries de laMer, che aveva intuito che entrambe condividevano il terzo occhio. Non era semplice fare lecarte, soprattutto quando in esse leggeva cose così brutte da farlastare male: infatti iniziare a farle ad Achiropìta le procurò undoloroso crampo allo stomaco. Ciò non ostanteincominciò, anche perchè la donna era curiosa e ansiosa.Anche se era venerdì,giorno perfetto per quell'attività, la lettura delle carte si rivelòda subito difficile. E' ovvio che Maia non avrebbe mai potuto dire“E' l'uomo giusto” ma Achiropìta si sarebbe almeno aspettata unpiccolo incoraggiamento. Non ottenne neppure quello. Anzi la cartadell'appeso fu quella che comparve più frequentemente, dimostrandoin un certo qual modo che per capirel'essenza di una relazione bisogna guardarla a rovescio.Achiropìtasperava ardentemente, in cuor suo, di vedere la carta degli amanti,che non volle invece uscire. Gli occhi le si stavano allagando ecapiva solo a tratti la voce di Maia, che le diceva che le cose eranoancora ferme, e che le carte non riuscivano a penetrare nei lorocuori. Uscì salutando infretta, profondamente delusa, e trovandosi al punto di partenza.Erano le dieci e e si sentiva di schifo. Capì che non era solo ladelusione, era anche fame. Decise di andare daIrene, una sua amica, disordinata dell'amore come lei, con la qualeavrebbe potuto confidarsi.La trovò nel suokafenion dalle porte dipinte di azzurro, con le fotografieingiallite dei parenti appese alle pareti alternate a immagini sacre.C'erano anche due vecchi seduti ai tavoli, così immobili da sembrareimpietriti dall'età. Irene era stata una donnabellissima, ardente nell'espressione, con due lanterne azzurresplendenti al posto degli occhi, incorniciate da una capigliaturabiondissima, che tradiva piuttosto un'origine nordica, o meglionormanna. I disagi della vita e le scelte sbagliate l'avevano fattainvecchiare prima del dovuto, sotto il biondo il grigio si indovinavasoltanto, e la prolungata esposizione al sole giustificava emascherava i solchi profondi del viso. Ma restava una donnadolcissima, specie per Achiropìta. Si erano conosciute da pochianni, casualmente, mentre facevano la spesa al mercato, ed eranodiventate subito amiche. Non potevano vedersi spesso ma fra loro siera creata un'intimità profonda, e alla prima occhiata Irene capìche la sua amica aveva un problema. Dopo averla abbracciata ericambiato il suo bacio la fece sedere comoda e le portò un caffè e un piattino di melomakàrona, ben sapendo quanto lei fosse golosadi quei dolcetti.Dopo aver divorato iprimi due dolci incominciò a raccontare, per la seconda volta quellamattina, la sua ultima avventura. Irene sorrideva, e si vedevachiaramente che era contenta per lei. “Segui il tuo cuore,Chiropì”, le disse, “cerca di rubare tutta la felicità chepuoi, datti tutta e prendi tutto. Non lasciare niente di tutto ciòche puoi prendere e non avrai rimpianti. Se quest'uomo è veramentecome dici ti prego di non farmelo neanche conoscere, ché te loruberei”. E rise forte, facendo sussultare le due statue di pietra.Irene aveva capito tutto,e Achiropìta fu confermata, se mai ve ne fosse stato bisogno, nellasua intenzione di non lasciarsi scappare quella che riteneva, a tortoo a ragione, l'ultima,e la migliore occasione.Non aveva più paura.


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