Ogni capitolo è composto da un’inquadratura fissa – scelta questa che verrà tradita con alcuni movimenti di macchina, seppur necessari, negli ultimi momenti del film, spezzando “l’incantesimo” che fino a quel momento attrae magneticamente chi guarda – eppure c’è una continuità sorprendente rispetto a ciò che dovrebbe apparire spezzato e/o slegato. Continuità data in primo luogo dalla fotografia, che va rarefacendosi parallelamente allo sviluppo drammaturgico, dalla recitazione impeccabile di tutto il cast e, soprattutto, dalla continuità geometrica che sussegue i vari “quadri” che compongono il film. Nonostante il finale sembri quasi forzato nel dover a tutti i costi raggiungere numericamente le fasi della via crucis, la sceneggiatura per buona parte del film regge perfettamente specie nel momento in cui bisogna restituire la dicotomia, cui facevamo riferimento precedentemente, circa l’ambiguità dell’adolescente avviata sulla strada – che sarebbe bene definire vicolo cieco – del dogma.
A rendere interessante - oltre che inquietante - la pellicola s’aggiunge, infine, la rappresentazione di una schizofrenia caratterizzante il fondamentalismo religioso – e quello cattolico, in questo, poco ha da invidiare al “cugino islamico” – andando ad individuare anche all’interno di una tragedia come questa elementi grotteschi restituendoci un mondo costruito su una complessità troppo spesso data per scontata. Antonio Romagnoli