Beautiful New Bay Area Project. Soggetto e sceneggiatura: Kurosawa Kiyoshi; Fotografia: Saitō Ryō; Coreografie: Koike Tatsurō; Montaggio: Sakugawa Mizuki; Suono: Jono Naoki, Shibasaki Kenji, Matsuura Hiroki; Musiche: Nagashima Hiroyuki; Interpreti: Mita Mao, Emoto Tasuku; Produzione: Hara Takashi; Durata: 29’; Prima proiezione: 13 novembre 2013.
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Il giovane presidente (Emoto Tasuku) di una società che si occupa della conversione di una vecchia area portuale in un elegante complesso di grattacieli, succeduto al padre ma poco interessato al proprio lavoro né tantomeno smanioso di farsi carico delle responsabilità che il suo ruolo comporta, si innamora a prima vista di Takako (Mita Mao), una bella e misteriosa operaia che lavora in uno dei magazzini della baia. Dedita unicamente al proprio lavoro, Takako non si dimostra interessata alla dichiarazione dell’uomo, e respinge tutte le sue proposte di lasciare quel luogo, destinato a essere smantellato, verso cui prova affezione. Indispettito, lui ruba, tra le targhette degli operai, quella che porta il nome della ragazza. Poiché tuttavia l’oggetto sembra rivestire una particolare importanza per Takako (in seguito a una promessa fatta al padre), ella decide di riconquistare il proprio nome con le unghie e con i denti, facendosi strada a suon di calci e pugni fino all’uomo che l’ha deprivata dell’identità.
Concepito come segmento di un più ampio progetto di natura panasiatica intitolato Beautiful 2013 (a cui hanno preso parte anche Lu Yue, Wu Nien-Jen e Mabel Cheung), Beautiful New Bay Area Project si inserisce, insieme a film come Barren Illusion (1999), Charisma (2000) e il corto Soul Dancing (2004), nel filone più esplicitamente sperimentale di Kurosawa, quello che si distanzia più radicalmente dai canoni del cinema di genere per concedersi un maggior grado di libertà, soprattutto a livello di immaginario e strutture narrative (aperte, sfilacciate, ellittiche, digressive). Come in altre opere recenti del regista (in particolare Penance [2012] e Seventh Code [2013]), la protagonista è una donna combattiva, ed è proprio a questo aspetto della personalità di Takako che Kurosawa dedica il lungo climax finale del film. Beautiful New Bay Area Project è infatti strutturato, in maniera piuttosto netta, in due parti di cui la prima, più narrativa, funge da introduzione, mentre la seconda, praticamente priva di dialoghi, porta invece in scena l’azione pura nelle forme di una simbolica scalata verso il “boss” finale, quasi in stile videogame “picchiaduro”. Se le arti marziali sono per Kurosawa un territorio sinora inesplorato, immutato è tuttavia il modo in cui il regista filma le coreografie dei combattimenti, ovvero tramite long-take nei quali la cinepresa si tiene distante dai corpi, mentre il commento sonoro, invece di accentuare la frenesia dell’azione (come di solito accade in sintonia con un montaggio veloce), favorendo al contempo il coinvolgimento dello spettatore, enfatizza unicamente la tensione drammatica della scena, conferendole, nell’insieme, un effetto di solenne e distaccata astrazione.
Molti sono gli altri elementi di contiguità rispetto alla produzione principale del regista, a partire dalla scelta di location prossime all’estinzione (un magazzino fatiscente, un’area che sta per essere dismessa) che si fanno metafora di un universo sul baratro. Il cinema di Kurosawa è sempre stato mosso da propositi di testimonianza verso simili edifici ancorati al passato (palazzi in rovina, officine, hangar) ma destinati a sparire nel contesto di uno scenario urbano in continuo mutamento. Come in molti dei suoi film, inoltre, Kurosawa descrive mondi per loro natura distinti (vecchio e nuovo, fantastico e concreto, sporco e pulito, femminile e maschile, mare e terraferma, luce e ombra), talvolta anche nettamente (la linea gialla che l’assistente del protagonista intima a quest’ultimo di non sorpassare, che richiama alla memoria il nastro rosso di Pulse), presi tuttavia in un momento di permeabilità, di scambio, di contatto anche conflittuale simboleggiato dai topi invisibili che si introducono nella limpida sede della società, ed esplicitato nel monologo di Takako sull’armonioso rapporto di lotta e ricambio tra forti e deboli che caratterizza il misterioso mondo marino da cui dice di provenire. È proprio l’ambigua identità della protagonista a incarnare la contaminazione tra mondi che prende vita nello scenario liminare della baia.
Questo momento di confusione tra contesti differenti si estende anche all’uso dei codici cinematografici che, come spesso accade nel cinema di Kurosawa, vengono impiegati in maniera inusuale e distante dal loro “naturale” contesto di appartenenza: si pensi alle atmosfere horror, in un film che non è un horror, suggerite dall’uso delle luci e delle ombre in un magazzino popolato da operai che sembrano fantasmi (forse perché appartengono a un luogo destinato a sparire); e viceversa al registro sostanzialmente realistico con cui vengono mostrati risvolti di carattere fantastico, come nella scena in cui la ragazza rivela di provenire dal turbolento mondo delle profondità marine, immediatamente seguita da un’altra in cui la vediamo, in una situazione di assoluta quotidianità, telefonare al padre lontano durante una pausa di lavoro; e per finire alle scene d’azione, filmate con un distacco che ne snatura il senso, nelle quali l’impressione di realismo suscitata dalle coreografie e, soprattutto, dalla scelta di riprenderle con dei long-take, contrasta con la più generale stilizzazione della messinscena e dei personaggi contro i quali si batte Takafpiko. [Giacomo Calorio]