Virale vs. Virtuale
Un moai
Ti guardo, ma è come essere sott’acqua.
Attonita, un moai dell’Isola di Pasqua.
Stare male ha i suoi vantaggi:
Senza droghe fai bei viaggi.
Mi attraversa l’onda che tutto risciacqua.
La salute viene dal contagio, qualche volta. Ogni tanto bisognerebbe mangiare la caramella caduta a terra. Lasciare le mani sporche quando si va a tavola. Non scartare il verme trovato nell’insalata.
La pediatria moderna raccomanda di non sterilizzare troppo gli oggetti a contatto col bambino. Per rafforzarne il sistema immunitario. I pediatri dicono anche di non lasciarlo solo con internet. Si perderebbe esperienze concrete e formative.
Anche Franzen raccomanda agli scrittori di non giocare troppo con la rete. E per motivi simili a quelli consigliati ai bambini. Inutile opporre che se ne può fare a meno quando si vuole. Il virtuale esige continuità e reiterazione.
Non è per marketing che lo scrittore immola la propria riservatezza perdendosi dietro a Twitter e fratelli. Ha scritto questo, oggi, Ida Bozzi su La lettura. Vero, corretto. Lui vuole aderire a una “Società delle menti”, che però è definita subito utopica e virtuale.
Che uno pensa di star sporcandosi le mani, di irrobustire le fila dei propri anticorpi, come per contatto con la vita vera, mentre in realtà si isola in un contesto sterile, fa esperienza di web. Di web, non di vissuto.
Si stanno concludendo i miei primi 20 mesi di Wp, un po’ meno di Twitter, fb e altri social. In tutto questo tempo sono stata in ottima salute fisica, ma ho subito imprevisti danni immateriali. Non sapevo come uscirne.
Allora, come cura d’urto, ho cercato e mangiato il verme dentro l’insalata.
Sapeva di terriccio, era buonissimo.
Ora sto bene. Per la prima volta dopo tanto tempo mi devasta un potente quanto implacabile raffreddore.