A Lucedio oggi la gente si sposa e ci producono riso di vari tipi, paste e farine. Questo, almeno, è ciò che posso intuire navigando nel sito del Principato di Lucedio che si dilunga sulla descrizione dei prodotti, proponendo anche alcune ricette ad hoc. Se c’è una parte carente, sul sito, è quella che riguarda la storia del luogo, di cui si riportano la data di fondazione – il 1123 –, a opera dei monaci cistercensi e i principali passaggi di proprietà. L’altra storia, quella che ha portato uno sparuto gruppo di luttuosi in questi luoghi, una domenica d’agosto, è completamente obliterata. Ed è una storia che, ancora oggi suscita curiosità, interesse, forse qualche brivido lungo la schiena. Non è un caso che l’episodio 14 dell’orribile serie The Scariest Places on Earth sia dedicato proprio all’abbazia e ai suoi misteri, che vi racconterò in modo più sobrio.
Madonna delle Vigne.
Partiamo dal nome. Lucedio. Io lo pronuncio correttamente: è una parola sdrucciola, con l’accento che cade sulla e. Ma è facile ingannarsi e pronunciarlo diversamente, come se il nome fosse composto da due parole: Luce-Dio, luce di Dio. Un’altra teoria etimologica, però, ci porta all’opposto del bene, al nome di un angelo che alla luce era fortemente connesso, finché poi non precipitò nella tenebra. Lucifero. E di qui in avanti la storia diventa leggenda. All’interno del Principato non siamo riusciti ad accedere. Colpa nostra, che non abbiamo prenotato per tempo. Una signora al citofono ci fa carinamente notare che le due chiese e gli altri edifici protetti entro la cinta di mura non sono accessibili ora, forse neppure più in là. Eppure, io la chiesa di Santa Maria avrei voluto a tutti i costi vederla. Ho letto in rete molte congetture sulla sua “bizzarria” architettonica – alcuni dicono che la sua pianta richiami la figura di una croce capovolta – e sui tunnel sotterranei che, in passato, collegavano il Principato a molte località delle vicinanze e del Monferrato in un reticolo intricatissimo.
Mangiamo lì a fianco, in una piccola radura di erba. Alcuni di noi sembrano delusi, almeno un po’. Forse si aspettavano di più. Ma a mio avviso l’aura di mistero è forte e potente. E ora sono contenta, perché siamo qui in un po’ di persone che stiamo bevendo un Domaine du Diable rosé – piccolo omaggio… –, ma da sola sento che forse non ci sarei mai venuta.
Finiamo pranzo, ci incamminiamo, riprendiamo le macchine e percorriamo la strada drittissima che porta nuovamente al Principato. Ma ce lo lasciamo alle spalle. Poco oltre, infatti, c’è l’altra meta della giornata, il cimitero della Darola. L’entrata è sfasciata. Un cancelletto massacrato dai rovi e un Cristo in alto in una nicchia, che ormai non può più fare alcunché. Da fuori, si scorge una vegetazione prepotente, disorganizzata, avida di spazi. Dentro, questa impressione sarà confermata. Raggiungiamo la chiesetta sul fondo, annotando prima alcune lapidi – le ultime del cimitero – risalenti al 1945. Sul pavimento della chiesetta un tappeto finto persiano, polveroso e stracciato, testimone di qualche sabba recente. Sui muri scritte, qualche 666 qua e là. Siamo insieme scettici, colpiti, un po’ inquieti. Satana c’è, c’è sempre stato da queste parti. Ma è veramente lui o solo una reazione alla noia? Non ci chiediamo altro. Va bene così. Per essere l’8 di agosto, questo tour alternativo tra abbandono, morte e possedimenti, è già sufficiente. Forse siamo annoiati anche noi.
di Silvia Ceriani