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L’accademia dei morti viventi. Parte quinta: l’università

Creato il 12 marzo 2012 da Btfp @btfp1

[Segue da Parte quarta: la conservazione dei testi]

HR Giger Passage I
Le riforme di K. Fitzpatrick – la revisione da pari a pari, la trasfigurazione comunitaria dell’autore, l’interpretazione del testo come luogo di discussione piuttosto che come prodotto, la socialità della sua disseminazione e conservazione – si fondano sulla convinzione che la pubblicazione accademica tradizionale sia divenuta economicamente insostenibile.

Le riviste delle multinazionali dell’editoria scientifica adottano un modello commerciale vantaggioso soltanto per loro, fondato sull’oligopolio imposto dal marketing dell’ISI (ora: Thomson Reuters Web of Science) e sullo sfruttamento del lavoro gratuito dei ricercatori.  La loro prima vittima è la monografia umanistica, sacrificata negli acquisti delle biblioteche a causa dell’altissimo prezzo degli abbonamenti alle riviste.  Applicato alle University Press, questo modello sarebbe suicida, perché farebbe seccare un ramo vitale dell’istituzione per salvarne un altro.

L’accesso aperto può cambiare le regole del gioco. Il suo movimento, consapevole del legame fra l’oligopolio dei core journals e la crisi dei prezzi dei periodici, è animato da un interesse etico all’universalità della discussione scientifica e alla trasparenza della spesa pubblica.

Buona parte della ricerca umanistica è però scarsamente o per nulla finanziata. Non le si può dunque applicare il modello “authors pay”  di Plos, nel quale il prezzo imposto agli autori “ricchi” rende possibile offrire gli autori “poveri” una pubblicazione gratuita. Si può certo pensare a spostare la redditività dal prodotto al servizio e all’effetto di rete offerto da un sistema di oggetti ad accesso aperto. Ma anche digitalizzata la pubblicazione comporta una spesa per il lavoro umano e la tecnologia, specialmente nel caso di  progetti innovativi  come Vectors.

Per uscire dell’impasse occorre  far comprendere alle università che nell’età digitale le pubblicazioni non possono più essere licenziate per le stampe: ora la comunicazione del sapere è parte del laboratorio degli umanisti. Come nel caso del laboratorio degli scienziati, le sue strutture tecnologiche e le sue sperimentazioni devono essere trattate come componenti – e non come esiti – della ricerca. Nel 2009 la commissione Crui per l’accesso aperto aveva pensato a qualcosa di simile, proponendo la soluzione institutions pay a preferenza di quelle readers pay e authors pay.

Perché questa soluzione funzioni, le istituzioni devono cambiare. Le biblioteche, che hanno sempre avuto il compito di raccogliere testi e offrire servizi, possono essere il perno del mutamento. La funzione editoriale non può più essere delegata a un’industria separata dalle ricerca; le Universty Press devono riscoprire il loro ruolo originario di servizio per università che, a loro volta, devono ridiventare, da sedicenti centri d’eccellenza, luoghi di discussione e di pensiero, per il bene comune più che per l’utile economico individuale. Proprio per questo, come nell’accademia platonica, la comunicazione deve tornare ad essere un aspetto essenziale della loro vocazione.

La comunicazione del sapere si è allontanata dal sapere, per farsi intrapresa editoriale, perché si è preso a trattarla come un marchio d’eccellenza, da accertarsi competitivamente. Si teme che l’editore universitario al servizio della sua istituzione non selezioni quanto pubblica e perda di prestigio. Non si è però mai avuto un timore simile per le biblioteche, che curano la comunicazione delle università in entrata: per quanto le loro politiche di acquisto siano guidate dai bisogni degli utenti locali, forme di cooperazione come il prestito interbibliotecario e il consorzio le tengono aperte al mondo. E se le biblioteche portano il mondo nell’università, perché non ripensare, parallelamente, l’editrice universitaria come il servizio che porta l’università nel mondo? Come il servizio che, anziché recintare e vendere testi licenziati per le stampe, accompagna gli autori nei loro esperimenti di ricerca e comunicazione?

Ogni università dovrebbe rendersi conto che avere una strategia di pubblicazione le è tanto essenziale quanto offrire dei corsi di studi. Senza una prospettiva editoriale, gli archivi aperti rimarranno meri depositi bibliotecari, spesso semivuoti, e non diventeranno mai luoghi di comunicazione e di discussione. Ma perché il cambiamento avvenga davvero, occorrono il coraggio e la consapevolezza che sono mancati alla American Anthropological Association quando ha deciso di trasferire – in un modo tanto opaco quanto repentino –   il suo AnthroSource dalla University of California Press alla multinazionale Wiley-Blackwell. Il nuovo editore ha immediatamente raddoppiato il prezzo d’abbonamento, ottenendo, come effetto collaterale, la nascita di una AnthroSource libera accanto a quella proprietaria.

“Gli editori e le società di studi sono diventate grandi organizzazioni  burocratiche irrigidite nei loro comportamenti, talvolta per ragioni buone  (stabilità, affidabilità), talvolta per cattive (tradizionalismo, paura, interessi personali). Il software libero è un memento del motivo originario per il quale queste organizzazioni furono  fondate. Assieme al movimento per l’accesso aperto, ci costringe a chiederci di nuovo: a che servono le società di studi?” (adattamento da C.M. Kelty et al. Anthropology of/in Circulation: The Future of Open Access and Scholarly Societies, p. 563) A rendere pubblici i loro studi o a tenerli nascosti?

Nel mondo della stampa, quando un editore falliva, i suoi libri gli sopravvivevano. Ma quando fallisce un progetto di pubblicazione digitale, tutto il suo patrimonio rischia di sparire. E per quanto, liberando i testi per l’accesso aperto, si possa sperare da trar guadagno dai servizi e dal sistema piuttosto che dai singoli testi, il pubblico delle università è di solito composto dalle stesse persone che creano i contenuti. Anch’esse, dunque, se vorranno sopravvivere dovranno cooperare costruendo servizi e strutture trans-istituzionali.  Non si può lasciare agli editori commerciali il compito di innovare al nostro posto e nel nostro interesse.


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