di Stefano Lupo
Questo articolo è apparso su ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, il 28.04.2014
Il 23 Aprile 2014 potrebbe divenire una data storica per svariati motivi e non solo per l’accordo che torna a legare in un unico ensemble Hamas e Fatah. Data per scontata la necessaria presa di distanza, stizzita, dei leader del governo di Israele, da Netanyahu al Ministro degli Esteri Lieberman, il totale superamento delle logiche post-Oslo 1993, anticamera dell’inimicizia tra Hamas e Fatah, segna da un lato il ribaltamento delle posizioni del biennio 2006-2007 tra i due movimenti palestinesi, dall’altro la possibile fine di Hamas come elemento di power balance tra Tel Aviv e Ramallah.
Il gesto del 23 aprile, che per la verità ha trovato piuttosto fredda la piazza di Gaza City dopo i tentativi andati a vuoto nel 2007, nel 2011 e soprattutto nel 2012 (Accordo della Mecca, Accordo del Cairo e la Dichiarazione di Doha), arriva dopo una fase preparatoria di svariati mesi, con numerose gentilezze scambiate tra Ramallah e Gaza per ammorbidire i toni del negoziato e l’importante arrivo di una delegazione di Fatah nella Striscia, l’11 febbraio scorso.
Hamas, la creatura dello Sceicco Yassin, fondato dalla Fratellanza Musulmana come risultato emergente nella prima Intifada, è da tempo sempre più isolato: la caduta libera del ruolo civico del movimento che controlla Gaza, quel ruolo che gli aprì molti cuori dei Palestinesi delusi dallo scarso peso del movimento di Abu Mazen, e che lo tenne in piedi dopo il duplice assassino di Yassin e del Dottor Rantisi, sta provocando scossoni sempre più forti nei suoi ranghi e il vittorioso scontro del giugno 2007 con Fatah, la guerra civile post-elezioni del 2006 che portò Hamas a dominare Gaza, è solo un pallido ricordo.
Anche Fatah non si trova in una fase eccessivamente prospera: i gesti eclatanti in chiave ONU di Abu Mazen del settembre 2011 sembravano da tempo un fugace passato e la sponsorship americana per un accordo con Israele non stava riuscendo a rompere il muro di certe concessioni, ancora una volta sugli insediamenti di coloni ebrei nei territori occupati, ritenute da Netanyahu un elemento sul quale «Israele non può retrocedere». In più, nella chiara visione che ha Ramallah della situazione, un possibile Stato palestinese ridotto unicamente alla West Bank, senza quindi un possibile corridoio verso Gaza (nel piano partito a luglio 2013 da Washington, Hamas doveva essere lasciata a se stessa), era totalmente inaccettabile.
Israele ha reagito quasi in maniera incredula all’entente tra i due gruppi palestinesi, nonostante i segnali di riavvicinamento fossero evidenti: aldilà dell’ostilità Israele-Hamas, naturale visto che il gruppo palestinese ha tra i suoi elementi fondanti la distruzione dello Stato ebraico (o quello che esso rappresenta, visto che non lo ha mai riconosciuto), Tel Aviv non ha mai amato vedere lo scenario palestinese controllato da un solo, unico, schieramento politico. Ecco perché il governo Sharon nel 2005 uscì da Gaza, permettendo di lì a poco l’entrata di Hamas, per aumentare la frattura intra-palestinese. In più, la violenza da sempre esercitata dall’ala militare di Hamas, dalla Jihad Islamica in Palestina, dalla Brigata dei Martiri di al-Aqsa e dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ha da sempre rappresentato per Tel Aviv un abile deterrente contro le pressioni internazionali per il raggiungimento di un accordo sul caso palestinese. Molti in questi mesi sono giunti dunque a pensare che, in fin dei conti, nonostante gli attacchi continui e le due altisonanti operazioni del 2008 e 2012 (Piombo Fuso e Colonna di Nuvole), una Gaza controllata da un morente Hamas non preoccupi più di tanto Tel Aviv.
Nel gesto che torna a legare Hamas e Fatah, con l’obiettivo di addivenire alla creazione di un governo tecnico presieduto da Abu Mazen in cinque settimane (un periodo leggermente troppo lungo, secondo alcuni) per poi andare ad elezioni politiche e presidenziali nel giro di sei mesi, un gesto che coincide con l’ultimo bombardamento israeliano sulla Striscia di Gaza e che precede, di appena una settimana, la supposta deadline del 29 aprile per un accordo secondo il placet del Segretario di Stato John Kerry, si ritrovano tuttavia ragioni che vanno ben aldilà della mera questione palestinese. Esse da un lato sottendono alla possibile azione dirompente dell’accordo del 23 aprile e alla presumibile rappresaglia israeliana (non solo la chiusura dei negoziati, fatto puntualmente verificatosi), ma rappresentano anche una confluenza di plurime dinamiche regionali in grado di portare un aggravio di incognite, quantomeno nel breve periodo.
Il raffreddamento del rapporto con l’Iran, dopo che Hamas si è rifiutato di sostenere la causa del governo Assad nel conflitto civile siriano, pare risolto, nonostante i tre anni di quasi silenzio. Per Hamas, i poco più di venti milioni di dollari che affluivano nelle casse di Gaza provenienti da Teheran erano tornati ad essere una priorità irrinunciabile visto l’enorme tracollo subito dopo il coup semi-militare egiziano contro il governo Mursi il 3 luglio 2013: l’estromissione e poi il bando della Fratellanza Musulmana da parte dell’establishment del Generale Abdel Fattah al-Sisi ha di fatto tagliato le gambe di Hamas, ancor più minacciata ora dall’emersione (anche grazie il conflitto siriano, il collasso statale libico e le turbative egiziane) del fenomeno jihadista salafita a cavallo tra Gaza e Nord Sinai.
Non si può esprimere ora una previsione totalmente calibrata sull’evolversi vicenda, ma si possono ad ogni modo trarre alcune conclusioni: in primo luogo, sia che Fatah domini lo scenario futuro, convertendo Hamas (o quel che ne rimarrà) verso un approccio più morbido, sia che, improbabile, Hamas porti Fatah verso l’aggressività di un tempo, l’attuale fase negoziale con Israele pare compromessa, anche per la crescente percezione di isolamento che Tel Aviv sente di dover subire, ancor più se i flussi monetari iraniani verso l’ormai ex (forse) Hamas riprendessero sostanza. Potrebbe tutto ciò portare a una posizione più aggressiva di Israele anche nel dossier iraniano? É verosimile senz’altro prevedere una maggiore minacciosità dei quadri israeliani con Washington, per un pressing a tutto campo sul caso nucleare, ma non solo.
Gli Stati Uniti, per l’ennesima volta, sono stati presi in contropiede. Obama al momento dell’accordo del 23 aprile si trovava in Giappone mentre Kerry era in Ucraina a sostenere la causa ucraina contro il “nemico ritrovato” russo. Una possibile faglia dovuta al riavvicinamento dei due gruppi palestinesi rischia di aprire, in questo momento, un terzo fronte di lotta diplomatica e geopolitica per le quali forse ora a Washington non sono pronti, o non sono in grado, senza considerare il grande sgarbo della Turchia sempre più isolata nell’area, ma pur tuttavia membro NATO, con il Ministro degli Esteri Davutoğlu che ha applaudito all’intesa Hamas-Fatah nonostante l’evidente imbarazzo americano. L’asse forse ripristinato tra Hamas e Fatah rischia di creare un effetto a valanga tale da rendere il potenziale americano sempre più sfumato e il mondo di nuovo troppo grande per gli Stati Uniti, inutilmente alla ricerca di partner che vadano aldilà della fragilità dell’Unione Europea.
* Stefano Lupo è Research Fellow presso Iran Progress e Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche e Politiche ed Economia del Mediterraneo (Università di Genova)
Photo credits: AP
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