Il 14 luglio 2015, dopo anni di impegnativi negoziati, l'Iran, i cosiddetti P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la Germania) e l'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione Europea, hanno siglato il Joint Comprehensive Plan of Action, un accordo che inquadra e disciplina gli aspetti fondamentali della produzione nucleare iraniana, garantendone l'uso esclusivamente pacifico, per scopi energetici e proibendone qualsivoglia uso militare.
Il Plan of Action apre una nuova era nelle relazioni tra i Paesi occidentali e l'importante attore mediorientale: in particolare, l'accordo sembra inaugurare un felice disgelo nelle relazioni tra gli Stati Uniti e l'Iran, che nell'ultimo quarantennio sono state, nel migliore dei casi, assenti. All'indomani della firma, e dopo l'unanime approvazione dell'accordo da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 20 luglio, manifestazioni di piazza hanno infiammato Tehran. La firma del deal appare tanto più importante, non soltanto nell'ottica di una nuova relazione tra gli Stati Uniti e l'Iran, ma anche nel delicato equilibrio della sfera mediorientale, nonché nell'ambito delle complesse relazioni che Tehran ha sempre avuto con Mosca.
Il percorso per la firma dell'accordo è stato lungo ed estremamente complesso. La società iraniana ha subito e sta subendo una lenta evoluzione verso una maggiore apertura, pur restando una repubblica islamica, in cui un notevole potere decisionale permane saldamente nelle mani dell'autorità religiosa. Nonostante ciò, il ruolo della società civile è notevolmente cresciuto, maggiori richieste di benessere, prosperità e diritti si diffondono, non soltanto nelle città principali ma in tutto il Paese. Di fronte a ciò, un ruolo chiave per la sopravvivenza della repubblica islamica è incontrovertibilmente mantenuto dall'autorità religiosa. E proprio la necessità di mantenere forte il ruolo (simbolico ed effettivo) del potere religioso è uno dei motivi che ha reso i negoziati per l'accordo un percorso piuttosto accidentato.
L' Ayatollah Khamenei, massima autorità religiosa iraniana, con l'intento di rispondere alle esigenze del proprio popolo, si è mosso con cautela per non rischiare di mostrarsi cedevole di fronte alle pressioni occidentali. Eppure, è stata proprio la cooperazione della suprema guida religiosa che ha permesso la conclusione del tanto agognato accordo, sebbene egli abbia preferito "mascherare" il proprio beneplacito dietro la presidenza del moderato Rohani. Infatti, nonostante l'accordo sia stato siglato dall'attuale presidente in carica, i primi negoziati sono avvenuti nel corso del mandato Ahmadinejad, durante il quale una difficile situazione economica, aggravata da una corruzione dilagante, ha spinto la classe politica iraniana a iniziare segretamente le trattative nel 2011. Ciò è stato possibile anche grazie all'appoggio dello stesso Khamenei: egli ha colto l'occasione dell'elezione del presidente Rohani nel 2013 per dare nuovo impulso ai negoziati, al fine di giungere ad un accordo che permettesse all'economia iraniana di liberarsi dal peso delle sanzioni economiche, senza tuttavia mettere definitivamente fine al programma nucleare.
Tuttavia, i benefici per l'Iran non saranno immediati e, in ogni caso, sono vincolati alla piena applicazione dell'accordo: solo la previa certificazione da parte dell'Agenzia Atomica Internazionale, che garantirà la cooperazione iraniana nei termini previsti dall'accordo, permetterà all'Iran di beneficiare della cancellazione delle sanzioni economiche, benché permarranno le sanzioni attualmente in vigore a causa del sostegno iraniano a gruppi qualificati come terroristici e per le violazioni dei diritti umani tuttora persistenti nel Paese. Nondimeno, il beneficio economico che l'Iran può trarre dall'accordo è innegabile, in quanto potrebbe arrivare a ottenere fino a 150 miliardi di dollari provenienti dal flusso di denaro derivante dalla cancellazione delle sanzioni economiche: una boccata d'aria di cui l'economia iraniana ha estremo bisogno.
L'accordo sembra essere allo stesso tempo un traguardo, ma anche un punto di partenza verso un futuro peraltro ancora incerto. Un elemento in particolare appare cruciale e da esso dipende l'effettiva prosperità o meno del Plan of Action: l'applicazione del deal è principalmente legata alla volontà politica dei Paesi coinvolti. Esso si rivelerà un evento storico di lunga portata solo se le elites politiche garantiranno la sua effettiva applicazione; e ciò è vero per quanto riguarda l'Iran (obbligato ad attuare in toto le restrizioni e le riduzioni previste dall'accordo al fine di beneficiare della cancellazione delle sanzioni) ma anche per gli altri Paesi firmatari, non ultimi Stati Uniti e Russia.
Da un lato, infatti, l'applicazione del deal sarà fortemente condizionata dalle alternanze che si verificheranno ai vertici politici dei due principali attori: Iran e Stati Uniti. Nel medio e lungo periodo, in particolare, le preoccupazioni sul futuro del nucleare iraniano permangono e non sono state del tutto sopite dalla firma dell'accordo: molti temono che, al termine dei 15 anni di durata prevista per il Plan of Action, l'Iran ricomincerà il suo programma di arricchimento dell'uranio ma, questa volta, sulla base di condizioni finanziarie ben più forti di quelle attuali, tali da poter potenzialmente resistere all'imposizione di nuove sanzioni economiche. Ma proprio a tal proposito Obama ha sottolineato che risiede nella semplice firma dell'accordo, la reale importanza del deal: i successori alla Casa Bianca saranno in una posizione più forte per controllare la produzione nucleare iraniana rispetto a quanto sarebbero in grado di ottenere in assenza del Plan of Action.
La firma dello storico deal, peraltro, sembra costituire non soltanto una svolta economica e politica per il Paese, ma anche l'inizio di un nuovo percorso nelle relazioni tra l'Occidente e l'Iran: un percorso che potrebbe essere (e, in parte, è già) foriero di importanti risvolti geopolitici. Infatti, l'importanza dell'accordo non è calcolabile esclusivamente in termini tecnici ed economici: esso può potenzialmente influire sullo status quo e scuotere sotto diversi punti di vista il fragile equilibrio mediorientale, in particolare nella lotta contro Da'esh e nella soluzione della ormai quinquennale crisi siriana. Gli ultimi sviluppi della guerra contro lo Stato Islamico, profondamente influenzati dai recenti attentati terroristici in Libano, Francia e Sinai, vedono un coinvolgimento militare degli Stati Uniti sostanzialmente contenuto, che consente così un margine d'azione più ampio per altri attori regionali, tra cui l'Iran, contro le cui mosse il presidente Obama è riluttante a schierarsi, anche per evitare eventuali ripercussioni sull'accordo, in quanto Tehran potrebbe decidere di non applicare in maniera capillare il deal, inficiandone così di fatto la validità.
È° d'altra parte vero che la comune minaccia di Da'esh sembra unire Stati che, fino a pochi mesi fa, si erano attestati su posizioni politiche nettamente differenti, in particolar modo nel conflitto siriano nel quale, mentre Russia e Iran hanno sempre supportato il presidente Bashar al-Assad, le altre potenze occidentali si sono spesso apertamente schierate a favore dei ribelli. E anche su questo piano d'azione, il disgelo delle relazioni tra le nazioni occidentali e l'Iran, incentivato dalla firma dell'accordo, sembra portare i propri frutti: l'Iran ha per la prima volta preso parte alle discussioni sull'azione da intraprendere per risolvere la crisi siriana, tenutesi a Vienna il 30 ottobre scorso. L'Iran era stato inizialmente invitato dalla Russia, ma osteggiato dagli Stati Uniti e dall'Arabia Saudita: invece, solo tre mesi dopo la firma dell'accordo, gli Stati Uniti hanno dichiarato che la risoluzione della crisi siriana non è attuabile senza la cooperazione delle maggiori potenze regionali e ciò include necessariamente Tehran: così, Mohamed Javad Zarif, lo stesso ministro che ha negoziato il deal per l'Iran, ha accettato l'invito e ha preso finalmente parte alle discussioni sulla Siria.
In questo complesso scenario, non sono da sottovalutare le relazioni bilaterali tra Tehran e Mosca, suscettibili di subire gli effetti politici derivanti dall'accordo. Questo, infatti, da un lato rafforza la cooperazione tra i due Paesi, sia da un punto di vista economico che militare, ma dall'altro ha l'effetto indiretto di "ridurre" l'importanza di Mosca nell'alleggerimento delle sanzioni verso l'Iran, data la nuova distensione con i Paesi occidentali. Senza contare il possibile pericolo di una rinnovata concorrenza delle imprese occidentali sul mercato iraniano, che potrebbe influire negativamente sulla difficile condizione economica russa, già in sofferenza per le pesanti sanzioni (americane ed europee).
Pertanto, l'accordo, visto l'attuale e complesso scenario, non soltanto mediorientale, ma anche globale potrebbe nel breve periodo incentivare la distensione e, addirittura, la cooperazione per la risoluzione di due importanti fattori di destabilizzazione del quadrante mediorientale, ormai interconnessi tra loro: lo Stato Islamico e la Siria. Tuttavia, la sua potenziale efficacia si dispiegherà pienamente solo se, al di là degli eventi nell'area di crisi siro-irachena, la volontà politica dei Paesi contraenti resterà orientata ad una sua completa riuscita: il fallimento del deal, infatti, rischierebbe di vanificare i passi in avanti fatti fino ad oggi. È probabile che, nei prossimi anni, l'Iran sarà guidato da una nuova guida religiosa, data l'avanzata età dell' Ayatollah Khamenei, ma non è possibile formulare ipotesi sull'orientamento (moderato o intransigente) della futura guida spirituale. Inoltre, sia gli Stati Uniti che l'Iran prevedono un mandato presidenziale quadriennale, che limita la rielezione del presidente ad un'unica volta consecutiva: con le elezioni presidenziali all'orizzonte sia negli Stati Uniti (2016) che in Iran (2017), il futuro prossimo non solo è incerto, ma anche difficilmente prevedibile.