In una bellissima scena de I Ponti Di Madison County, Robert dice a Francesca: "Quando penso al perché faccio fotografie, l'unica ragione che mi viene in mente è che questo lavoro doveva portarmi qui; è come se tutto quello che ho fatto in vita mia io lo abbia fatto solo per arrivare qui da te.".
Guido in una calda giornata francese verso Chantilly, con mamma Lisbet vicino a me.
Quando avrai quarant'anni comincerai a fare bilanci, e capirai se sei felice oppure no, mi dice Lisbet. Io i bilanci li ho già fatti, forse perché sono abbastanza vecchia o forse perché li facevo anche a dieci anni, quando cercavo di capire quali e dove fossero i miei amici, in quale delle città in cui eravamo stati; in quale nazione mio padre avrebbe deciso di fermarsi rimanendo il tempo necessario, consentendomi di farmi amici per la pelle, di quel tipo che non si stacca più. Amici tatuati sul cuore.
Quando mi chiedo perché mi sposto sempre in modo irrequieto, l'unica ragione che mi viene in mente è perché ancora sto cercando la certezza dei legami affettivi.
La mano di Lisbet si posa sui miei capelli, me li sposta dal viso, li mette ordinatamente dietro l'orecchio destro. I finestrini sono aperti, ti potrebbero andare davanti gli occhi mentre guidi. Il gesto affettuoso di una madre, come se tra noi fosse sempre stato così, come se i miei capelli al vento avessero sempre avuto bisogno della sua mano, del suo profumo alle rose, del suo silenzio così pieno di parole ancora da dire. Il futuro nei nostri silenzi è pieno della certezza di avere ancora moltissime cose da dirsi.
Quando penso al perché mi sposto così, l'unica ragione che mi viene in mente è perché questi lavori dovevano portarmi qui, in questa giornata di giugno, in macchina con Lisbet, verso uno dei luoghi della mia infanzia. Uno di quei posti da gita domenicale, da corse nel parco, da ginocchi sbucciati, da gelato da prendere dopo aver visto il museo, da dormita in macchina al rientro a Parigi, da profumo di casa e di parquet dopo una giornata di sole e vento; da potage troppo caldo, da vasca da bagno piena di schiuma al talco, da fumetti di Tintin letti prima di addormentarsi.
Non mi piace l'aria condizionata dal climatizzatore, c'è rumore di vento e spifferi, alla radio Stromae. Cambio stazione e ritrovo Stromae. Parlo con mia madre di Stromae. Ci troviamo d'accordo su Stromae.
Il parco è bello, più dei giardini all'italiana di Versaiiles. Non c'è ordine, ma devastante passione bucolica: il disordine dei sensi.
Nei miei ricordi era tutto molto più grande, come se giocassi in uno spazio abbastanza sufficiente da costruire una regione, e metterci dentro province, villaggi, strade, carrozze e damine impacciate incapaci di camminare a causa dei vestiti ingombranti, con sotto corpetti e stecche di balena. Costringevo mio fratello a fare il principe. Lui era contrario, ma non importava; con la fantasia lo facevo principe lo stesso, e frasi tipo "papà ho sete" a "quando torniamo a casa?", le trasformavo in "la mia regale gola ha bisogno di refrigerio" e "quando ci ritiriamo nelle nostre stanze, Sire?".
Chiedo a mia madre perché non lavi mai i piatti, come mai li accumuli uno sull'altro nell'acquaio giorno dopo giorno, fino a che qualcuno non provveda. In genere è Kaddour, il suo compagno, che mosso a compassione indossa il grembiule con la scritta nera su sfondo rosa stinto I Love Sicily (residuato bellico di un viaggio di ventitré anni fa) e borbottando un putain dopo l'altro, intervallato da qualche merde perché il detersivo è sempre poco, tira su le maniche della camicia e lava tutto.
La sua risposta è laconica: perché dovrei farlo?
Sto imparando ad accettare le persone per quello che sono. Non molto tempo fa provavo a cambiarle con i mezzi persuasivi che avevo a disposizione, ottenendo come risultato l'opposto: si allontanavano ancora di più da ciò che, secondo le mie aspettative, rappresentava il mio ideale di persona giusta. Ho capito, infine, che non sono le persone ad essere sbagliate, ma le aspettative. Frasi tipo "mi hai deluso" non le ho più dette né pensate, forse perché sono diventata talmente piena di me da non volere mai ammettere di essermi creata aspettative che non mi potevo permettere.
Nonostante tutto, però, illustro a mia madre le gioie di una lavastoviglie e ridiamo insieme pensando a quelle bravissime signore che ricoprono il piano cottura con fogli d'alluminio per evitare che si sporchi. Così quando moriranno lasceranno la casa pulita dice Lisbet. Esatto, e i letti rifatti.
Torniamo verso Parigi in silenzio, questa volta i finestrini sono chiusi, l'aria è quasi fredda, evitiamo la Stromae-radio. Perché in ogni istante della mia vita provo sempre a ficcare qualche citazione cinematografica? In questo momento, ad esempio, ci starebbe benissimo quella di Mia Wallace in Pulp Fiction. Ritenersi soddisfatti nei silenzi è, probabilmente, la più alta concezione di rapporto perfetto. O forse è semplice sintonia? Conosco silenzi pesanti, assordanti, che ti devastano, che ti fanno desiderare una terza persona per poterli riempire di qualcosa, non importa cosa: n'importe quoi.
N'importe quoi in francese è come il prezzemolo, lo inserisci ovunque nel parlato. E sta bene con tutto, come il tubino nero, è adatto ad ogni occasione e ad ogni situazione. Oserei dire che trattasi quasi di intercalare, se non ci fossero il bon bah e il putain (per i più esigenti abbiamo pure bon bah putain eeeh) che forse battono addirittura il n'importe quoi.
(nella foto sopra il figlio di Kaddour troppo alto per l'acquaio di Lisbet)
L'acquaio di Lisbet nel video di Stromae
La musica che mi piacerebbe alla radio, una radio-AIR