Mi assento per un po’, vado un attimo a Lisbona a comprare le sigarette, e spero di poter visitare l’Oceanario, ovvero l’acquario della capitale portoghese costruito per l’Expo ’98… ehi… un attimo; ho scritto proprio “acquario”? Beh allora beccatevi questa replica:
Epalzeorhynchus, Colisa Lalia, Bletta Splendens, Cheirodon Axelrodi. I nomi scientifici di quei pesci li ricordava tutti, quei pesci del negozio di animali nel centro commerciale. Però preferiva i suoi di nomi, quelli che gli aveva dato lui: coda-rossa, extraterrestre, parrucca, scheggia-di-vetro. Forse era quella medicina lì che gli avevano dato, quel Retelin, che avevano fatto bene a darglielo se si ricordava le parole difficili, ma in realtà lui si sentiva uguale, e non capiva perché c’erano tanti adulti che per questo fatto del Retelin si arrabbiavano fra di loro. Però suo padre aveva le idee chiare: i dottori hanno sempre ragione, diceva, e se ti danno una medicina tu la devi prendere. Poi sua madre diceva che il padre di Giovanni, che era dottore, a Giovanni non lo dava il Retelin, allora suo padre diceva che certi dottori non capiscono niente. I dottori hanno sempre ragione e i dottori non capiscono niente. Forse quella medicina non funzionava, perché lui non ci capiva niente, oppure se funzionava forse la doveva prendere anche suo padre. E magari se la prendeva pure lui gli avrebbe comprato l’acquario, come quando l’inverno prima si erano presi tutti e due l’influenza, e dopo, quando erano guariti, il padre gli aveva comprato tre gormiti tutti insieme, però l’acquario no, diceva che costava troppo, allora lui aveva chiesto la palla di vetro con la sabbietta colorata, che quella no, quella non costava troppo, che l’aveva vista al negozio di animali del centro commerciale, ma il padre aveva detto di no, che non era per i soldi, e che poi si sarebbe stufato e che toccava alla madre badare ai pesci e che lei aveva già tante cose da fare. Costava troppo e non era per i soldi. Sì, suo padre aveva proprio bisogno del Retelin. Anche Sofia prendeva il Retelin, quella bambina che si avvicinò a lui mentre lui guardava i pesci. Anche se Sofia non lo prendeva veramente, metteva la pillola in bocca e la teneva incastrata fra i denti, nello spazio del dente che gli era caduto il terzo giorno di scuola e che ancora non era cresciuto, poi quando la mamma si allontanava, lei sputava la pillola e la metteva insieme alle altre nell’astuccio dei pennarelli, poi le dava alla sorella, che le rompeva tutte fino a quando rimaneva una polvere fina fina, e lo faceva sempre di sabato, prima di uscire. Sofia si avvicinò a lui che guardava i pesci. E gli chiese perché guardava ogni giorno i pesci. E lui rispose che gli piacevano. Poi lei rise, e gli disse che aveva la scarpa slacciata. Era quella sinistra. Si slacciava sempre quella. Lui si abbassò per fare il nodo, e sentì il calore in faccia, e capì che era diventato rosso, e quando diventava rosso si vergognava ancora di più, e diventava ancora più rosso. Lei se ne sarebbe accorta. Doveva dire qualcosa. Una cosa che dice uno che non diventa rosso. Una cosa che avrebbe detto suo padre. Allora disse che te ne importa? Chiese a Sofia cosa fregasse a lei se ogni giorno andava a guardare i pesci nel negozio di animali nel centro commerciale. E lei disse che a lei importava perché lui era il suo fidanzato. E lui allora diventò ancora più rosso, come di più non si poteva, altrimenti diventava un altro colore, tipo viola o nero. Lui rimase piegato, cercava di fare quel maledetto fiocco che non gli veniva mai, e pensò che la cosa più furba da fare era far finta di niente, di non aver sentito. Però lei si piegò. E gli diede un bacio. E lui si fece la sua idea di bacio, cioè due teste che stanno in un posto e un attimo dopo in un altro, solo che sono più vicine. Era una sua idea, una cosa sua, personale, come i nomi che aveva dato ai pesci del negozio di animali nel centro commerciale. Poi lei scappò via. E lui rimase piegato. E aveva ancora la scarpa slacciata. Pensò a quello che avrebbe dovuto fare, a come doveva comportarsi con Sofia, in classe, il giorno dopo. Ed ebbe paura. A casa chiese alla madre di riempirgli la vasca, che voleva fare il bagno. Quando si immerse il calore dell’acqua fumante gli fece girare la testa. Ma si immerse tutto, fino al collo. Osservò a lungo il vapore che si staccava dall’acqua, e sembrava come la lava nei vulcani che aveva visto nei documentari che facevano il pomeriggio. Ma era solo acqua, come quella in cui nuotano i pesci. Allora lui mise sott’acqua anche la testa. E decise che l’avrebbe tirata su solo quando sarebbe diventato un pesce. Ma poi ci pensò bene e si disse che non aveva senso mettere la testa fuori se diventava un pesce. E quando capì questo sentì che non ce la faceva più a trattenere il respiro, che l’aria stava per uscire da sola, che spingeva come il gas nella coca-cola. Capì che non sarebbe mai diventato un pesce. Però se resisteva un altro po’ magari stava male, e forse il padre gli avrebbe comprato l’acquario.