Il libro fa parte di una triologia di impressioni del viaggio che Dumas, in compagnia del pittore naturalista Godefroy Jadin e del cane Milord, fa da Palermo a Napoli, attraverso le Eolie e la Calabria, a bordo di una speronara una piccola imbarcazione a vela, molto diffusa nell’Ottocento tra i siciliani e i maltesi. A parte lo strano sperone, o tagliamare (da qui il nome) queste barche si distinguevano per una carena piuttosto affilata, e per la costruzione relativamente leggera che permettevano di alarla in secco con relativa facilità. Erano attrezzate con due o tre alberi a vela latina con uno o più fiocchi e non superavano i quindici metri di lunghezza.
Il libro è impreziosito dagli acquerelli e dai collage opera di Giorgio Maria Griffa, un farmacista mancato nato a Biella nel 1944, che usa l’alchimia per mescolare i colori. Nell’acquarello ha trovato il mezzo che più lo soddisfa per riportare sulla carta i ricordi dei suoi viaggi, prediligendo paesaggi marini, relitti e fari. E a proposito di fari, suo è il prezioso libro I fari degli Stevenson, un racconto di viaggio alla ricerca dei 90 fari costruiti dalla famiglia del celebre R. L. Stevenson lungo le coste della Scozia.
Dell’escursione all’Eolie di Dumas riportiamo alcuni brani quasi didascalia agli acquarelli “capolavoro” di Griffa che fanno del libro un volume da collezionare.
Lunedì 5 ottobre 1835
Come il capitano ci aveva detto, trovammo il nostro equipaggio al porto.
A venti o trenta passi dalla riva, la nostra piccola speronata ondeggiava vivace, armoniosa e leggera tra i grandi bastimenti. simile a un alcione tra un nugolo di cigni.
La prima pagina del III capitolo dell’edizione francese de “Le Capitaine Aréna”
Per una parte della giornata dovemmo bordeggiare: il vento ci era sfavorevole; passammo più volte davanti a salina, Lipari e Vulcano, scorgendo ad ogni passaggio tra Salina e Lipari lo Stromboli che agitava all’orizzonte il suo pennacchio di fiamme.
Risalimmo sul ponte e visitai la nostra cabina. Si trattava semplicemente di una specie di tenda circolare in legno, sistemata a poppa e abbastanza ben issata all’ossatura dello scafo da non dover temere una raffica di vento o un colpo di mare. Dietro questa tenda c’era uno spazio libero per poter manovrare il timone.
Il posto del pilota. La tenda era completamente vuota. Toccava a noi procurarci il necessario poiché il capitano della “Santa Maria di Piedigrotta” non noleggiava la cabina arredata. Del resto, visto lo spazio, non ci si poteva che limitare a due materassi, due cuscini e quattro paia di lenzuola.
Quanto ai marinai, capitano compreso, di norma dormivano alla bell’e meglio nell’interponte.
Era un blocco di pietra pomice che poteva pesare si e no venti libbre, e tutte le pietre circostanti erano dell’identica sostanza; lo stesso monte su cui camminavamo – malgrado la sua saldezza apparente – non era affatto stabile: il governatore ci garantì che, se fosse stato possibile divellerlo, noi tre da soli saremmo riusciti a trasportarlo da una costa all'altra dell’isola.
Un tratto di mare largo appena tre miglia separa Lipari da Vulcano.
Più ci si avvicinava al centro del cratere, più esso perdeva la sua solidità, diveniva mobile come la sabbia delle paludi e infine minacciava di dissolversi sotto i piedi. Una pietra appena un po’ pesante, gettata su quel terreno semovente, vi affondava e spariva come nel fango.