L'affresco #2: gli albori della tecnica e il mistero romano

Creato il 09 aprile 2015 da Artesplorando @artesplorando

Affreschi minoici, Museo archeologico nazionale di Atene (XVI secolo a.C.)

Abbiamo già detto dell'aspetto tecnico dell'affresco (QUI). Oggi e nei prossimi appuntamenti con la rubrica Decorestauro, ne affronteremo il lato storico.
I primi esempi di dipinti che sfruttano la tecnica dell'affresco risalgono agli inizi del II millennio a. C. in Mesopotamia (palazzo di Yarim-Lim a Alalakh) e a Creta (palazzo di Cnosso). Sulle caratteristiche della pittura murale antica in Asia centrale ed Estremo Oriente, dove comunque appare eseguita piú che altro a secco, mancano ad oggi studi dettagliati e sistematici. In India, dalle ricerche pubblicate da O. P. Agrawal, risulta che una tecnica simile all'affresco comparve solo attorno al VII sec. d. C.; mentre indagini recenti hanno dimostrato che nello stesso periodo in Giappone esisteva una tecnica a fresco già evoluta (dipinti del tumulo di Takamatsuzuka presso Nara). Della grande pittura murale greca, di cui parlano le fonti, gli scarsi ma fortunati ritrovamenti rivelano, già a partire dal V sec. a. C., una perfetta conoscenza dell’affresco (tomba del tuffatore a Paestum, tomba di Filippo il Macedone a Vergini).

Tomba del Tuffatore, scena di simposio

Un riflesso di quella padronanza era già stato colto nel graduale progredire della tecnica in Etruria, dove da un iniziale sottilissimo strato di calce, steso direttamente sulle pareti di tufo levigato o su uno strato di argilla finissima mista a torba, si passa ai due strati di calce e sabbia della tomba dell’Orco e alla raffinata realizzazione delle tombe orvietane (Golini I e II), in cui alla soglia dell’ellenismo la stratificazione è già simile per composizione al canonico intonaco romano.È a Roma infatti che vengono comprese e sfruttate al massimo le possibilità dell’affresco. Ad esso fa riferimento in piú occasioni Plinio (Storia naturale, XXXI, XXXIII, XXXV, XXXVI); e Vitruvio (L’architettura, libro VII), con ricchezza di dettagli e accuratezza di terminologia, ne descrive materiali costitutivi e metodi di esecuzione, dalle istruzioni sul prolungato spegnimento della calce (tre anni), da quelle sulla complessa stratificazione e composizione degli intonaci (per un totale di sette), alla lucidatura meccanica intermedia e finale, tutto in funzione di quelle peculiarità di levigatezza e lucentezza che, unite a una qualità ricca e pastosa, fecero nascere, a partire dal Settecento, la questione dell’encausto.

Affresco di epoca romana, villa dei Misteri di Pompei (I secolo d.C.)

Infatti per lungo tempo si ritenne che i Romani si servissero della cera come legante per ottenere quei loro risultati, e il dibattito si è protratto per quasi due secoli. Di recente tramite una corretta rilettura del testo di Vitruvio e un’indagine sistematica sui reperti, si è arrivati alla conclusione che il «grande segreto» stia nella combinazione tra notevole spessore e natura degli intonaci e completo sfruttamento delle caratteristiche delle terre usate per dipingere, la cui componente argillosa ne consente la politura. Lo strato affrescato poteva cioè, quando ancora plastico, essere ripetutamente levigato fino ad ottenere una superficie riflettente. D’altronde Vitruvio solo a proposito del cinabro accenna alla cera, e ne parla come d’uno strato protettivo atto ad evitarne l’annerimento, specie in dipinti all’aperto. E lo stesso Plinio, cui si deve la descrizione dell’uso della cera come legante, avvertiva che essa non era da impiegarsi nella pittura murale se non come protezione.Svelato il mistero dell'affresco romano, la prossima volta vi parlerò di come questa tecnica attraverserà il medioevo per arrivare alle porte del Rinascimento.
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