L’albero fiorito dei Veda

Da Graziano

La location era un’amena località montana sulle prealpi carniche nel momento in cui il blu elettrico dei piccoli fiori della genzianella era al suo massimo splendore, l’argomento il XV e il XVI capitolo della Bhagavadgita: chi ha seguito i seminari con costanza incomincia a comprendere nella carne il significato di “insegnamento esoterico”.

Progressivamente Marco Ferrini (Matsyavatara) ci ha accompagnato nella lettura del “linguaggio fiorito dei Veda”, fino a farcene cogliere il paradosso della sua necessità/strumentalità ricordandoci quanto l’antinomia sia parte dell’esperienza spirituale.

Ma anche a chi non avesse seguito l’intero ciclo di seminari, non può essere sfuggito il suo messaggio rivoluzionario, così evidente già nel I shloka del XV capitolo. La metafora dell’albero della vita che nella tradizione è non casualmente il Ficus religiosa, la stessa specie dove il Buddha conseguì il Risveglio, è un potente messaggio che riassume in poche frasi molta esperienza ed insegnamenti. E’ questa una figura che troviamo anche in altre importanti tradizioni, come quella giudaico-cristiana, l’albero capovolto rappresenta bene la difficoltà tutta umana di cogliere il senso della vita, distolti come siamo dall’apparenza/illusione. Noi vediamo il mondo alla rovescia, confondiamo il reale con ciò che non lo è, ci pare che quello che vediamo, tocchiamo, misuriamo, sia la realtà; una lettura, accompagnata dalla spiegazione del Maestro, ci svela il paradosso del XV capitolo: ciò che noi scambiamo per reale è il riflesso della realtà che affonda le sue radici in cielo (l’albero è rovesciato), nell’invisibile, è dall’invisibile che procede il visibile… più facile a dirsi che a realizzare il concetto vero?

Dove sta quello che ho chiamato paradosso? Sta nel fatto che i successivi shloka del XV capitolo (con precisi approfondimenti nel XVI) ci invitano a vivere tutta l’esperienza del “riflesso”, a passare per le “fronde”, le foglie e i frutti di quest’albero, perché il “linguaggio fiorito dei Veda” sarà pure uno strumento da non confondere col fine, ma se non è vissuto per intero non permette di “risalire” le radici, di compiere la metanoia. Ma Krishna ci conforta, ci assicura che non siamo soli in questo viaggio, nello shloka 15 dice infatti di essere nel cuore di ogni essere, nella Kata Upanishad è l’uccello (sull’albero!) che osserva l’altro uccello che mangia i frutti (dell’albero!). La metafora del viaggio è centrale in ogni esperienza mistico/religiosa, qui è espressa al massimo livello sia letterario che spirituale. Ci accompagna ma è neutrale, Si comporta come uno specchio, rimandandoci ciò che noi desideriamo, se il nostro desiderio è abbandonarsi al mondo alla rovescia non ce lo impedisce con un inferno eterno, ci lascia fare l’esperienza, ma se vogliamo recuperare il senso di questa vita attraverso la conoscenza ci fornisce i Veda (che non sono i testi religiosi hindu, ma gli insegnamenti di ogni tradizione autenticamente spirituale) e attraverso la conoscenza ci restituisce la memoria della nostra vera natura, quella che stà oltre le radici dell’albero della vita. Incomincio anche a comprendere perché Shopenauer fosse così attratto dalle Upanishad, infatti in questa visione dell’esperienza umana sulla Terra che cos’è il mondo intorno a noi se non un’espressione della nostra volontà?

Ora accendete la televisione e fate zapping: non vi pare radicalmente rivoluzionario questo rovesciamento di prospettiva? Non credete anche voi che una spiritualità vissuta nel quotidiano sia quanto di più rivoluzionario possa esistere anche da un punto di vista sociale, economico, politico, culturale, ecc?   Sarà un caso che nel successivo capitolo solo i primi tre shloka sono dedicati alle caratteristiche delle persone virtuose e tutti gli altri a quelle degli asura (ottenebrati)?

Leggiamola attentamente la Bhagavadgita, e soprattutto ascoltiamola dalla voce di che cerca di viverla ogni giorno e ogni notte, e proviamo ad immaginare questo mondo nella prospettiva di quelle radici che affondano nell’invisibilità di un cielo che è la nostra concretissima dimora.



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