Ignoranza al top
di Iannozzi Giuseppe
L’ho detto e ripetuto più volte che la Letteratura è morta.
Non ho mai pensato che gli Americani un grande popolo, di quelli che leggono libri: li ho sempre immaginati a un tavolino d’un McDonald’s a farsi di colesterolo e a leggere giornaletti invasivi, o al massimo Playboy. Insomma, non ho una grande opinione degli intellettualoidi americani, dei critici poi… non li considero più da una lunga pezza.
Gli intellettualoidi italiani mi fanno ancora più schifo di quelli americani: o hanno la puzza sotto il naso o non ce l’hanno proprio un naso, anche solo da fiuto. I critici poi, tutti schizzati, maniaci: o meglio ancora, fondamentalisti però qualunquisti, insomma pronti a dire un gran bene di tutto quello che la moda detta (o impone).
Se la Letteratura è morta, anche la Critica lo è.
Un feretro per due cadaveri.
Dilagano i gialli e i thriller in libreria. Par che non si legga altro. Gialli d’oltreoceano e nostrani: ce n’è per tutti i cattivi gusti. Il novantanove per cento di tutta la paccottiglia di genere immessa nel circuito distributivo (editoriale) è shit, nient’altro: scrittura seriale - che ripete personaggi scene storie -, assolutamente scevra d’una qualsivoglia psicologia o analisi sociale. Tutti oltremodo inverosimili: ma è incredibile quanti lettori sono disposti a credere che un giallo, un thriller, uguale o meglio a un romanzo di Pier Paolo Pasolini, ad esempio. C’è chi crede persino che con un thriller si possa far la rivoluzione – poi qualcuno mi dovrebbe spiegare che diavolo di rivoluzione, a che proposito e perché.
Scrivendo de “La promessa” di Friedrich Dürrenmatt: “Siamo di fronte a un romanzo pienamente razionale a dispetto di quello che si potrebbe pensare dati i presupposti esposti; per Dürrenmatt la razionalità è la realtà di tutti i giorni, il duro scontro con gli imprevisti, il fatto di avere prove, indizi del crimine commesso e non poter comunque assemblarli in una ‘traccia’ sicura: in breve, questo è quanto accade in realtà in un commissariato. Per Dürrenmatt il giallo non si può e non si deve risolvere incastrando alla perfezione tutti i pezzi del puzzle: la realtà produce imperfezioni e le imperfezioni sono i membri di un puzzle, che pur non incastrandosi tutti alla perfezione, producono la ‘razionalità’, il vivere quotidiano, sia esso inserito in un contesto felice o in uno criminoso”. Quello che gli scrittori contemporanei italiani e d’oltreoceano non hanno capito è che il giallo, il thriller, il noir non sono la realtà: in un romanzo un caso si risolve nell’arco di cinquecento pagine, nella vita reale il più delle volte il caso non si risolve affatto, e se sì, passano degli anni, se non dei secoli. Il caso Pier Paolo Pasolini non è ancora stato risolto; la strage di Ustica, ne sappiamo poco o niente; e per arrivare ai giorni nostri, anche se si potrebbero citare un’infinità di casi, il giallo di Cogne, Annamaria Franzoni è colpevole o no del delitto che le viene imputato? Mistero, ancora mistero dopo cinque anni dal fatto. Ma un giallo, a partire da Scerbanenko per arrivare ai più attuali Gianni Biondillo, Andrea Camilleri, Corrado Augias, Andrea Pinketts, ecc. ecc., per tutti questi autori, un giallo è “un caso che si risolve nel giro di quattrocento pagine o meno”, ovvero nel giro di pochi giorni: il commissario, il detective, è sempre un genio, uno che susciterebbe le invidie del più provetto A. Conan Doyle, con la differenza sostanziale però che Doyle scriveva per il semplice fatto d’intrattenere il pubblico, mentre oggi i giallisti hanno la presunzione di dirsi, o di farsi dire, ritrattisti della realtà quotidiana.
Dicevo dell’ignoranza degli Americani: hanno pensato bene di buttare fuori dalle biblioteche Aristotele, Hemingway, William Faulkner, Tennessee Williams. Perché? Ovviamente per far posto ai best-seller del momento, quelli di John Grisham, Stephen King, Nelson DeMille. La motivazione addotta è che non c’è posto sugli scaffali: e la gente leggerebbero solamente autori “d’intrattenimento” come Stephen King e John Grishman. Se questi sono i gusti degli Americani, non è difficile capire perché i più sono assolutamente incapaci di pensare con la loro propria testa, capaci però di farsi mandare alla guerra perché Bush Junior glielo ordina: ci vanno alla guerra, forse nemmeno più per una squallida questione di patriottismo e di bandiera, ma solo perché l’imput che gli viene dato è quello di “obbedire credere combattere”. Non c’è da stupirsi: se le nuove generazioni leggono esclusivamente “gli autori” propagandati dalla moda, e dal Governo, è chiaro che siamo davanti a cervelli pieni di acqua, in alcuni casi fortunati, di segatura.
Dunque, i classici della Letteratura mondiale vengono sfrattati dalle biblioteche, senza alcuna vergogna per far posto ai best-seller del momento, di moda o di regime. Purtroppo a osannare ogni schifezza partorita dalla penna di Stephen King, ad esempio, non mancano gli italiani; non è poi così strano trovarci di fronte a un Wu Ming 1che si dice entusiasta dell’ultimo romanzo di King: “L’odierna letteratura popolare, discendente diretta e mutante del feuilleton, ci propone strutture, linguaggi e personaggi sempre più complessi, anche in opere che scalano le classifiche con facilità e non-chalance. E’ il caso dell’ultimo best seller di Stephen King. […]Rileggiamo la descrizione che ho appena dato di La storia di Lisey e rendiamoci conto che quest’opera sta vendendo decine di milioni di copie in tutto il mondo. E’ uno dei tanti sintomi di una trasformazione epocale, ma in Italia si fatica a capirlo. Da noi il dibattito ‘ufficiale’ sulla cultura è dominato da quanti, magari in nome dell’arte ‘vera’, o per difendere il proprio ruolo di mediatori, o perché credono in teorie post-francofortesi sulla malvagità della tv e della ‘cultura di massa’, oppure per semplice snobismo, si rifiutano di conoscere e scagliano anatemi. Salvaci, padre King, dal bad-gunky di questi tromboni. Forse solo tu puoi farlo. Finché non verrà quel giorno, beh, sowisa.” Non c’è proprio che dire: bisogna essere totalmente ciechi per non rendersi conto che siamo di fronte a una spudorata pubblicità e non a una critica. Tutto ciò è triste, molto: ma dagli italiani in genere, siano essi scrittori o sedicenti critici, non c’è da aspettarsi nient’altro che questo: scodinzolare è facile. Tantissimi scodinzolano a piede libero oggi: è questo il vero problema.
Dunque, a Fairfax, un sobborgo alle porte di Washington, se uno va in biblioteca e prova a cercare un classico, gli viene detto che non ce l’hanno più: non una copia delle poesie di Emily Dickinson né una di “Per chi suona la campana” di Ernest Hemingway.
“Dobbiamo essere spietati”, ha detto al quotidiano della capitale il direttore delle biblioteche pubbliche di Fairfax, Mr. Sam Clay, che è già pronto a buttar fuori Aristotele e “L’Urlo e il Furore” di Faulkner. Sempre Mr. Sam Clay spiega, senza mezzi termini: “Un libro non è eterno. Se hai trenta metri di scaffalature occupate da libri sui tulipani e solo uno viene preso a prestito, devi liberarti di tutti gli altri.” Forse nessuno gli ha mai spiegato che Faulkner ed Hemingway non hanno scritto di tulipani. Forse Mr. Sam Clay legge soltanto i best-seller, che la moda gli impone, ne risulta dunque che è un ignorante, uno che ignora, che non sa le cose.
Spazio è stato fatto per i librettini che il mercato sforna, day after day: per far ancora più spazio nelle biblioteche, d’ora in poi ci penserà un software studiato proprio per questa esigenza, che in base all’indice di popolarità d’un libro, dal numero di richieste di prestito, deciderà se è il caso o meno di cestinare (per sempre) un titolo, un autore, la conoscenza e il sapere mondiale. Uno scenario a dir poco apocalittico, che si è venuto a creare non dall’oggi al domani, ma nel corso degli anni, anche grazie a noi italiani, che siamo tra i popoli che leggono meno. E però ci teniamo ad alzare la voce per ogni bullshit targata made in USA o made in England.