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- Chi è geniale? Chi possiede acutezza innata ma finisce per sprecarla facendo scelte infelici oppure chi sfrutta appieno la propria intelligenza normale per migliorarsi? Questa è la domanda che mi ha lasciato il libro di Elena Ferrante.
La storia di Lila e Lenu senza dubbio si legge agevolmente fatta eccezione per la quantità enorme di personaggi che spesso mi hanno confusa, soprattutto a causa della mia scarsa memoria, lo ammetto. Si tratta di un bel romanzo nel senso sostanziale del termine, in quanto contiene gli ingredienti giusti per avvincere il lettore: c’è il racconto appassionante di un’amicizia, i personaggi sono abbastanza ben delineati, c’è la fotografia di una Napoli anni ’50, c’è una sorta di spiegazione di certe dinamiche di violenza verbale e fisica e della condizione femminile di quell’ epoca e di quel luogo. I componenti essenziali non fanno difetto, ma a mio parere, il libro non va oltre una piacevole lettura. Manca un respiro più elevato che lo innalzi da semplice romanzo ad opera letteraria destinata a diventare un “classico”.
Avevo letto recensioni entusiastiche in merito a questa storia, recensioni che avevano creato una forte aspettativa in me, e forse questo ha giocato a sfavore della Ferrante, quanto più alte sono le attese e quanto più facciamo le pulci all’autore ed ai suoi libri. Senza dubbio ciò che ho apprezzato maggiormente è stata la semplicità con cui l’autrice ha reso l’idea di come fosse ( e forse di come sia tuttora) la vita in certi rioni di Napoli, senza ammantare di poesia ciò che poetico non è, semplicemente raccontando la realtà attraverso gli occhi di Lenu prima bambina e poi adolescente.
Mentre leggevo mi sono trovata più volte a pensare che “L’amica geniale” sarebbe adatto alla trasposizione in una mini serie per la tv, ecco, l’ho trovato estremamente televisivo, e credo che un bravo regista potrebbe trarne un’ottimo prodotto per il grande pubblico, ovviamente utilizzando la trilogia al completo. Perchè se non lo sapete, dopo aver letto “L’amica geniale” vi aspettano altri due tomi in cui la storia continua ( “Storia del nuovo cognome” e “Storia di chi fugge e di chi resta”) anche se devo ammettere che in fin dei conti il romanzo potrebbe anche concludersi così, con Lila e Lenu che salutano l’adolescenza e si avviano ad una nuova vita.
Riporterò alcuni passi che mi sembrano significativi:
“Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c'era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era cosi e basta, crescevamo con l'obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi.”
“Certo, a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicavano la maestra e il parroco, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione, anche se eri femmina. Le donne combattevano tra loro piu degli uomini, si prendevano per i capelli, si facevano male. Far male era una malattia.”
“C'era qualcosa di insostenibile nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, che solo reinventando tutto come in un gioco diventava accettabile.”
“Non sapevamo niente, a quasi tredici anni, di istituzioni, leggi, giustizia. Ripetevamo, e casomai facevamo con convinzione, quello che avevamo sentito e visto intorno a noi fin dalla prima infanzia. La giustizia non si realizzava a mazzate?”
“La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari. La plebe era mia madre, che aveva bevuto e ora si lasciava andare con la schiena contro la spalla di mio padre, serio, e rideva a bocca spalancata per le allusioni sessuali del commerciante di metalli. Ridevano tutti, anche Lila, con l'aria di chi ha un ruolo e lo porta fino in fondo.”
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