L'amore ai tempi della Sip - parte II

Creato il 04 maggio 2010 da Lindaluna

Il post sull’amore ai tempi della Sip ha (re)suscitato così tanti ricordi e commenti da parte dei miei amici, che penso meriti un seguito.
Qualcuno, ad esempio, mi ha riportato alla memoria l’infame ruolo di chi doveva attendere la telefonata.
Il/la disgraziato/a non solo non poteva uscire di casa, ma non poteva farsi una doccia, stendere i panni o farsi una dormita per tutto il tempo dell’attesa. Che poteva durare anche giorni e giorni.
Se poi nella stessa casa c’erano più persone che aspettavano una telefonata importante, il clima si faceva così elettrico che potevi passare l’aspirapolvere senza inserire la spina nella presa.
Il telefono era al centro del salotto, come un oracolo, come un Buddha. Muto quando stavi a fissarlo, assordante appena entravi nella vasca da bagno.
Ma per qualche motivo oscuro tu sentivi che la tua vita dipendeva da quel filo a spirale, eternamente attorcigliato e sempre troppo corto.
In una casa di mia conoscenza abitava una famiglia composta da genitori e cinque figli. L’ultimo nato con notevole distanza di tempo dal quarto. Quando i primi quattro erano in piena tempesta adolescenziale, dunque, il piccoletto muoveva i suoi primi passi. E spesso lo faceva proprio nei pressi del telefono, che se si metteva a squillare erano guai. Quattro bisonti furiosi si lanciavano verso l’apparecchio ignorando il fratellino che puntualmente volava per aria, atterrando sul provvido tappeto. Col passare degli anni anche il bimbo crebbe e cominciò a correre verso il telefono insieme ai fratelli. E a volare per aria in quel periodo fu il gatto.
Qualcun altro invece mi ha ricordato l’indecente, ma utile, pratica dello “squillo”. Il tuo fidanzato ti diceva che sarebbe rimasto a casa tutta la sera? Ok. Mi fido. Anzi no. Facciamo lo squilletto. Lui rispondeva e tu mettevi giù, senza dir niente. Bravo. Ma al tipo ossessivo compulsivo questo non bastava. E la tecnica dello squilletto andava avanti tutta la serata finché il poveraccio staccava il telefono e tu il giorno dopo eri autorizzata a spaccargli i maroni “perché tu avevi chiamato per dargli la buonanotte e te tapina avevi trovato staccato, certamente l’aveva fatto lui di proposito proprio un attimo prima di uscire per andarsene a bivaccare con quella mandria di idioti dei suoi amici”.
Quando poi avevi una relazione a distanza il telefono diventava un prolungamento del tuo corpo.
Perché non solo non esistevano i cellulari, ma non c’era Internet, non esistevano le compagnie aeree low cost, e i treni Freccia Rossa.
Potendo, te lo saresti ingoiato quell’aggeggio pur di sentire più vicino al cuore il tuo tesoro.
All’inizio. Di solito a settembre quando ancora ti illudevi che il tuo flirt estivo fosse una grande storia d’amore.
Verso la festa di Ognissanti, cominciavi a fare due conti. Costo settimanale per le telefonate: ventimila lire. Uscite in centro per esibire il fidanzato davanti alle amiche single: zero.
E annunciare a voce ben alta: “ragazze scusatemi devo chiamare” prima di appartarsi con una cabina telefonica, non faceva lo stesso effetto.
Verso Natale ti rendevi conto che il tuo status di fidanzata valeva quanto un abbonamento scaduto.
E che se qualcuno ti chiedeva com’era il tuo ragazzo, tu rispondevi: “Bah, carino, sì. Ma niente di che. Certo, non di quelli antiquati grigi con la rotella girevole. Lui almeno ha i tastini. E quando squilla si illumina tutto. Ma per la verità non mi accende più come prima.”
Verso gennaio il “fidanzafono” veniva formalmente informato sulla sua nuova e definitiva condizione di ex. Con raccomandata senza ricevuta di ritorno.
È da tempo che non ho più un telefono fisso in casa, ma quando ne vedo uno in casa altrui resto sempre più sorpresa dal loro livello tecnologico. Display per identificare chi sta chiamando, schermo per videochiamate, connessione Internet, porta USB, rubinetto per acqua calda ecc.
Un tempo i telefoni erano tutti uguali. Grigio topo, con rotella mangiadito e pulsantini bianchi per isteriche e ripetute pigiate in caso di occupato. E poi non esistevano le vocette, quelle delle signorine che oggi ti fanno il cazziatone se sbagli numero.
La prima volta che mia nonna – un po’sorda – venne a contatto con una vocetta, riattaccò di colpo, sdegnata.
“Che c’è nonna, chi era?”
“Ho sbagliato numero. Ho chiamato una svergognata con una voce tutta scicchignacche.”
Comunque dicevo che in origine era un solo modello, poi, all’inizio degli anni novanta il telefono è diventato un gadget di culto e ne sono usciti di tutti i tipi: a forma di panino, di lattina, di aragosta, di banana…più era strana la foggia e meno era probabile la conversazione. Un po’ perché non funzionavano mai bene, un po’ perché come si fa ad affidare i propri discorsi ad un bassotto con un filo che gli esce dal culo…scusate?
Io ne avevo uno a forma di scarpa da ginnastica ma non lo usavo volentieri perché mi dava la fastidiosa impressione che qualcuno mi camminasse sulla faccia.
Sempre meglio di quello di una mia amica a forma di gabinetto.
Una volta sua madre organizzò una cena raffinata per il principale del marito. Una di quelle cene da schieramento di tovaglie di lino, posate d’argento e bicchieri di cristallo.
Quando l’illustre ospite chiese di fare una telefonata, il padre della mia amica gli indicò orgoglioso il nuovo Sirio, quello disegnato dal guru del design Giugiaro.
Il capo si scusò e chiese se per caso non avessero un telefono in un’altra camera, poiché la telefonata era un po’ delicata.
“Ma certo, nella camera di mia figlia c’è un altro telefono. Faccia pure, lei non c’è, è uscita.”
Il poveruomo però non entrava in camera della figlia da circa sei mesi. E cioè da prima che il vecchio telefono a rotella venisse sostituito da un water.
Chissà se dopo molti anni il padre della mia amica è riuscito a prenderla con ironia e a ridere di quella volta in cui fu costretto a porgere un cesso al suo capo.
L’infausto evento però non fu sufficiente perché la ragazza si liberasse di quel telefono, regalo di San Valentino da parte del suo più grande amore. Vi lascio immaginare gli altri.
Una volta un’altra nostra amica decise che era ora di mollare il suo inutile e ingombrante fidanzato. E decise di farlo per telefono, ma da casa sua non poteva perché suo padre – un tipo un po’ all’antica - non aveva mai scoperto che aveva un fidanzato, e scoprirlo sul finire della faccenda non avrebbe migliorato le cose.
Di solito lei lo chiamava dalla cabina, ma non se la sentiva di mollarlo in quel modo. Non lo amava più, ma il poveraccio non meritava una fine simile. E così chiese ospitalità all’amica col gabinetto. Andai anche io nel mio consueto ruolo di supporter alle operazioni di scarico merci.
La mollatrice però non sapeva di quel telefono, della sua forma, e appena lo vide trasalì.
“Oddio! Ma cos’è?”
“L’apparecchio grazie al quale tornerai una persona libera.”
“Quello è un telefono?!? No, no, non lo posso usare. Non ne hai un altro?”
“Sì, ma è in salone dove c’è mio fratello che guarda la tele.”
“Ma insomma come si fa a lasciare uno con QUESTO aggeggio!?”
“Come lo si fa con un qualsiasi altro telefono.”
“Non posso, non mi viene!”
“Ufff! Quanto la fai lunga”
“Senti, fai così, chiudi gli occhi, digli quello che gli devi dire e attacca. Basta chiudere la tavoletta.”
E tirare lo scarico…
“Vabbè dai. E…oddio, panico. Cosa gli dico?”
“E che ne so, le solite cose che si dicono quando vuoi mollare qualcuno che proprio non reggi più, quella roba del tipo non so cosa provo, ho bisogno di tempo per pensare, sono in crisi ecc ecc”
“Nooo, che brutto! Io avrei pensato a: sono stata benissimo con te. Sei un bravo ragazzo e sarai sempre nel mio cuore, ma cerca di capirmi, sento il bisogno di fare nuove esperienze.”
“Che tradotto sarebbe: non mi piaci più, ma sei talmente sfigato che non voglio infierire. Apprezza il gesto e levati di torno che ho voglia di spassarmela un po’”.
“Non è vero! Sempre la solita cinica. Non lo amo più ma gli voglio ancora bene.”
“Ok ok…”
La ragazza brandì l'arredo bagno e diede inizio alla procedura di smollaggio.
“Pronto, ciao, sono io. Senti ti devo parlare.”
“Pure io.”
“Ah sì? E cosa mi devi dire?”
“Io…io non so più cosa provo per te. Ho bisogno di tempo per pensare e…”
“Sei in crisi.”
“Esatto.”
“Senti…fammi il favore…MA VAI A CAGARE.”
“Ecco. Vedi che alla fine il telefono ti è servito da ispirazione?”


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