Vero, lo riconosco. In un certo qual modo sono così. Non mi accontento di nulla, specie d'un quieto vivere nell'autoconservazione - come se l'essere felice non fosse una possibilità che possiamo provare e vivere anche continuativamente come esseri umani, e/o le cose buone fossero sempre di là da venire. Ok: quando? Un po' di autoconservazione sì, ci sta, anche solo per essere pronti a ricevere cose positive in futuro - quindi se siamo in salute, ricettivi e aperti magari le incrociamo e ci possono rendere felici. Ma personalmente non vado oltre il minimo sindacale. E contemporaneamente viro sull'intensità di contro alla mediocrità.
La vita per me è un continuo bilanciamento di opposti, così come il mio carattere e il modo in cui vedo i rapporti. Ma per ciascuno di noi l'oscillazione tra la felicità e il dolore può avere ampiezze diverse. Per me sono molto ampie. In questo sono 'estremista': compassionevole verso le fragilità altrui quanto chirurgica nel dolore che provoco di risposta ai torti che oltre un certo (invero molto ampio) limite subisco; capace di estasi paradisiaca e di energie che cambiano in meglio la vita a chi ho intorno quanto di distruzione e autodistruzione quando invece sto male; dotata di pensieri e riflessioni intense quanto la mia forza per cui comunque non mi lascio alla fine sopraffare dalla rabbia o dal dolore che pur provo drammaticamente quando accadono. Anche perché io, comunque, la sopravvivenza ce l'ho garantita se non altro dalla determinazione a essere felice, con tutte le mie forze e malgrado qualsiasi colpo avverso del destino. E, qualora non fosse, prima combatto con le unghie e con i denti per tentare il tutto per tutto e garantirmela, poi mando il tentativo a carte e quarantotto e pazienza!
"Potrei prescriverLe questo farmaco, annienta le emozioni e le ripercussioni sul corpo"; "Dovresti fare come me, vedi come sono calma? Quelle 7/8 canne al giorno e tutto è ok". Ok, fottetevi entrambi, e anzi, fottetevi proprio tutti voi che vi anestetizzate dalla felicità e dal dolore, vivendo alla fine nella paura. Io sto con le mie oscillazioni e se non sopportate il mio peggio non siete degni del mio meglio (grazie, Marilyn).
Sono stata abbastanza vicina a perdere tutto da non accontentarmi più dei 'così così', dello stare 'abbastanza bene', del vivere senza essere né carne né pesce. E, certo, ho sviluppato un'arroganza e un'autostima inaudite. Così come l'attitudine a una buona e serena solitudine, perché ovunque intorno vedo che le soluzioni alla paura consistono nella mediocrità - quella in cui in tanti si ritrovano e campano 'mediamente' sereni. Buon per loro se riusciranno a non svegliarsi mai. Ma quell'equilibrio che si genera dagli opposti, con questo mio agire, si sposta - sotto il segno della consapevolezza, di (ancora) una certa ingenuità e capacità di meravigliarsi, del calcolo dei rischi ma pure della volontà di superarli - sempre più verso un bilanciamento in positivo, più che sulla linea della neutralità. E questo è vivere, per me - qualcosa di infinitamente più appagante della mera sopravvivenza.
Sono persuasa d'essere in credito con la vita, ma contemporaneamente - per quanto assurdo possa sembrare provare contemporaneamente queste due sensazioni - se morissi ora mi sentirei in pari con il destino e non avrei rimpianti. Chi altri può dire d'essere già così in pace, così in 'equilibrio'? Chi altro può dire d'essere già così felice sul serio?