L'Angolo di Matesi: "DA TOMASI DI LAMPEDUSA A VISCONTI?"
Creato il 14 ottobre 2015 da Blog
Teresa Siciliano oggi ci parla de "Il gattopardo" di Tomasi di Lampedusa e ci offre un'analisi della società da lui descritta. Non perdetevi questo bell'articolo di storia della letteratura italiana!
Il gattopardo uscì nel 1958 postumo. Vivente Tomasi di Lampedusa, aveva trovato molti ostacoli sulla via della pubblicazione. Offerto a Mondadori e poi a Vittorini per una collana Einaudi, aveva ricevuto solo rifiuti. E forse la cosa si può capire: si trattava di un romanzo storico, genere ritenuto ormai sorpassato, e per giunta in un’Italia in cui da poco si era chiusa quella stagione neorealista, di cui Vittorini era stato uno dei padri (anche se non so quanti all’epoca si erano già resi conto che l’atmosfera era cambiata).Certo Il gattopardo è un romanzo storico un po’ singolare. Scritto da un aristocratico siciliano di una famiglia sulla via dell’estinzione, pone al centro della vicenda il 1860 e l’impresa garibaldina sulla base del principio “cambiare tutto per lasciare tutto come prima”, principio che all’epoca della pubblicazione fu molto criticato, ma che sostanzialmente rappresenta l’alleanza, effettivamente avvenuta anche se a prima vista sorprendente, fra la borghesia piemontese e la classe dirigente siciliana, che d’altra parte stava cambiando e sostituendo la nobiltà ormai morente con la classe borghese. Non la borghesia intelligente e lungimirante, auspicata da Manzoni, ma un’accozzaglia di sciacalli e iene che vanno a prendere il ruolo dei gattopardi. C’è in Tomasi perfino, si disse, uno spirito razzista: i siciliani sarebbero un popolo di conquistati, mai capaci di creare qualcosa di nuovo perché convinti di essere già perfetti. Affermazione un po’ curiosa per un uomo di cultura, se si tiene presente che dall’Unità in poi la Sicilia aveva prodotto alcune delle opere letterarie più innovative e importanti della letteratura italiana. Anche se oggi probabilmente, a livello politico, si potrebbero addurre con buon fondamento le vicende dell’istituzione regione autonoma.Insomma nell’Ottocento, secondo Tomasi, ci fu solo una sostituzione di ceti e il decisionismo e l’attivismo piemontese, rappresentati nel romanzo da Chevalley, non riuscirono ad aver ragione di una realtà arretrata; allo stesso modo, lo scrittore aveva dovuto constatare che tutte le speranze di cambiamento innescate dallo sbarco degli alleati erano andate deluse.Del resto non si può dire che il romanzo sia storico in senso stretto. Non per niente è stato sottolineato che borghesi ricchi come Sedara non c’erano in Sicilia prima della confisca delle proprietà ecclesiastiche e che nel 1862 il matrimonio fra Tancredi ed Angelica non sarebbe stato visto di buon occhio dalla nobiltà palermitana: insomma l’invito a Palazzo Ponteleone non ci sarebbe stato. E inoltre gli ultimi due capitoli, che vedono prima la morte del Principe e poi, a distanza di vari decenni, la perdita d’importanza della famiglia, fanno piuttosto pensare ad un romanzo decadente o, meglio, esistenzialista.Allo strepitoso successo dell’opera, soprattutto in Italia, non poco contribuì il film di Luchino Visconti, girato pochi anni dopo.A ripensarci oggi si trattò di una curiosa operazione: un altro aristocratico, discendente di una famiglia fra le più illustri della nobiltà italiana, sia pure politicamente vicino al Partito comunista italiano, rifletteva sull’impresa garibaldina rileggendola, sembrerebbe, con la consapevolezza che la grande rivolta culturale neorealista, di cui lui stesso aveva fatto parte con Ossessionee La terra trema, aveva fallito, lasciando l’Italia sostanzialmente come prima, come sempre. Basta guardare la scena della battaglia di Palermo, con l’alternanza delle sorti che trasforma gli aguzzini in vittime; oppure quella del posto di blocco, dove l’autoritarismo di Tancredi ottiene una scandalosa continuità del privilegio, oppure, prima della gran scena del ballo, la sbirciatina nelle campagne, dove, in stridente contrasto, sgobbano come sempre i contadini.Particolarmente efficace nel film l’episodio di Chevalley per far comprendere le grandi differenze all’epoca fra il Piemonte, rivitalizzato e ammodernato da Cavour, e il Regno delle due Sicilie, economicamente molto più arretrato, tema approfondito dal regista soprattutto grazie alle immagini.Molti parlano della fedeltà di Visconti al libro, dimenticando i tagli apportati se non altro per necessità, dal momento che già così il film è molto lungo. Viene eliminato l’ultimo capitolo, ambientato agli inizi del Novecento, e anche il tema della morte del principe è inglobato nella scena del ballo nonché poi nelle ultime inquadrature, quando Fabrizio, mentre torna a casa a piedi, incontra il prete che va a portare il santissimo ad un moribondo. Invece l’aspetto più propriamente politico viene sintetizzato nell’involuzione del personaggio di Tancredi, che da garibaldino è entrato nell’esercito regolare ed è rappresentato poi da Visconti come un uomo di destra quasi in senso prefascista, conclusione rafforzata da una delle due scene finali, quella di Sedara e i fidanzati che in carrozza tornano verso casa dopo il ballo, quando si sente una scarica di fucileria: si tratta del colonnello Pallavicino che comanda il plotone di esecuzione per i soldati che hanno disertato per seguire Garibaldi, particolare, mi pare, assente nel romanzo. E Sedara dice, con pause significative: “Bell’esercito! Fa sul serio! È proprio quello che ci voleva … per la Sicilia. Ora … possiamo stare tranquilli”.In conclusione, davvero bisognava che tutto cambiasse perché tutto restasse come prima.
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