Quando sono nata mio padre ha piantato degli alberi. Una fila doppia di pioppi bianchi lungo il prato che costeggia il fiume. Li ho guardati crescere più veloci di me, pennelli argentati verso il cielo. Quegli arbucci sono stati venduti alcuni anni dopo e hanno fruttato più di altri investimenti. Saggezza contadina di tradizione millenaria.
A ogni angolo un albero – dicono i miei occhi. Li vedo dappertutto a presidiare territori, delimitare confini, segnare spazi, affollare campi o coprire superfici ormai cadute in disuso. Ho il privilegio di vederli crescere liberi e non limitati dentro smilzi marciapiedi. Parlano gli alberi, come le cose, le persone. Raccontano nel loro apparente silenzio.
Ecco gli alberi di questa mattina, incontrati al sorgere del sole. Apparentemente uguali, o almeno simili, eppure così precisi nelle loro funzioni, diversi nell’aspetto, forse nell’anima.
Gli antichi greci utilizzavano la parola dendròn per indicare una pianta mentre usavano andròn, per denominare l’uomo. Parole simili, sorprendentemente somiglianti.
Alle sei, sulla cima del monte in estate, quando ancora è l’aurora a farla da padrona, gli unici suoni che si avvertono sono i richiami degli uccelli e il leggero soffio del vento.
Eppure sento un rumore che mi fa pensare a una fabbrica, a un tono sordo simile a una turbina in movimento. Non ci sono auto, rimango sorpresa. Cammino cercando la fonte del suono e arrivo a un tiglio carico di fiori. Tra i rami decine di api polpose svolazzano da un’influorescenza all’altra suggendo il nettare e ricreando col volo le vibrazioni di un opificio. Ferve il lavoro, non solo tra gli umani.
Il ginepro dal legno odoroso, tappezza i prati e si alza a formare alberelli. Porta bacche turchine, circondato da orchidee selvatiche, da arniche, rose canine e fiori di strigoli. Tante spine in mezzo a un profumo delicato.
Pruni selvatici, aceri, carpini sovrastano le macerie di pietre bianche e rosate ammonticchiate dopo la bonifica dei campi. Di macee ce ne sono a intervalli regolari su tutto il piano, testimoni di una dura contesa tra rocce e lavoro dell’uomo, vessillo di strappi di terra destinati al pascolo o alle semine, ottenuti contando e rimuovendo ogni singolo sasso.
Più in basso, a quota 600, trovo le foglie triangolari dell’acero campestre che circondano ancora la vite maritata all’albero. Sotto il fusto, tra la piantata, può crescere il frumento e possono pascere gli animali mentre la vite che protende dal basso verso il cielo, sale carica di grappoli già ben abbozzati. Lo spazio è multifunzione.
Poi risalgo di quota e incontro la maestà di una quercia da sughero. La sua presenza da queste parti è rara, ma ugualmente si staglia imponente sull’indefinito.
Un’esile ombra scende dal tronco mentre la luce comincia a illuminare le braccia nette e ramificate che si estendono ampie come una porta sul mondo.
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