A marzo Bilbolbul ti ha dedicato al mostra Anno nero, ce ne vuoi parlare?
Ho selezionato quaranta tavole tratte dai due romanzi realizzati nel 2010. La mia visione del noir che si confronta con quella di due grandi scrittori: Loriano Macchiavelli e Pino Cacucci. Sarti Antonio, Come cavare un ragno dal buco è un romanzo illustrato nel vero senso della parola. L’illustrazione non è un qualcosa in più, ma parte integrante del flusso narrativo. Quando si guarda non ci sono parole ma si legge lo stesso. È stata una bella sfida, intensa nella tempistica davvero stretta e soprattutto un percorso a ostacoli senza tanti punti di riferimento. Con Loriano abbiamo esplorato, ci siamo confrontati ed è venuto fuori un romanzo davvero atipico diretto a un pubblico trasversale. Nato come romanzo per ragazzi e cresciuto nel mentre. Alla fine è diventato semplicemente un romanzo illustrato come sarebbe bello trovare più spesso in libreria. Abbiamo cercato di scardinare il pregiudizio che qualsiasi opera di narrativa illustrata sia rivolta a un pubblico di giovani e giovanissimi lettori.
Con Pino ne La giustizia siamo noi invece riprendiamo la forma ormai classica del romanzo grafico. Abbiamo lavorato molto sulle atmosfere, i tempi narrativi. Volevamo raccontare di stati d’animo, spesso estremi, attraverso i gesti, i lunghissimi silenzi. Spesso sono i luoghi a parlare. Ho disegnato parecchie pagine di pianura padana immersa nella pioggia fitta e interminabile dell’autunno. La pioggia degli spazi desolati si alterna agli spazi opprimenti della città, una città sincretica che fonde varie derive urbanistiche italiane. La città che raccontiamo ha squarci di Milano, Bologna, Roma, Napoli, Cagliari. Una realtà cangiante e tentacolare. Il mostro che da sfondo diventa protagonista.
Anno Nero si chiama così perché racchiude un anno di lavoro intenso in cui mi sono dedicato a questi due romanzi piuttosto noir, un anno molto pesante dal punto di vista politico, sociale, economico (direi quasi nerissimo), un anno faticoso fisicamente, un anno con le mani sempre sporche di grafite e di acquerello scuro come il piombo. Un anno che mi ha fatto scoprire proprio nell’atto del disegno parti di me che non conoscevo. Mai come in questo recente 2010 ho amato e odiato con la stessa intensità e nello stesso momento il mio lavoro.
Forse viene dall’esigenza di sperimentare, di creare un legame più profondo con il lettore. Il nostro mestiere è basato soprattutto sull’opera prodotta, addirittura nel manufatto seriale da commercializzare, il giornalino un tempo, il volume adesso. L’artista è quasi sempre associato a un segno, diventa un’entità quasi astratta. Con le letture, reading, perfomances varie si offre un altro volto, un’altra angolazione dell’artista che racconta l’opera. Abbiamo un racconto all’interno di un racconto. Con la musica è molto più facile, basti pensare alle infinite possibilità che offre un concerto dal vivo, puoi lavorare modificando la struttura, puoi sperimentare, improvvisare. Esperienze meravigliose che in qualche modo erano precluse a chi si avvaleva del fumetto come mezzo espressivo. E poi ci si diverte, il che non è da trascurare. Il momento ludico è fondamentale nel processo creativo e comunicativo.
La giustizia siamo noi è un fumetto carico di pessimismo per una nazione che non riuscirà mai a mettersi in pari con la questione della criminalità, della corruzione e del malaffare. E’ proprio questa l’Italia che vedete tu e Cacucci?
Che dire? I fatti parlano da soli. Giorno dopo giorno mentre andavamo avanti con il romanzo ci confrontavamo. Quello che succedeva in diretta spesso affiancava e superava per spregiudicatezza e cinismo ciò che doveva essere comunque un’opera di finzione.
Va tutto così veloce che la realtà è diventata irrealtà e la fiction fa fatica a mantenere il ritmo. Non si era mai verificata forse una situazione simile. E si ride amaro. Molto amaro.
Il messaggio veicolato dal libro è – sintetizzo – per combattere veramente il marcio della nostra Italia si deve uscire dalla legalità. Quasi fosse una resa di fronte all’impossibilità di poter vincere con le sole armi della democrazia.
La nostra è una provocazione, una riflessione, un paradosso che porta all’estremo uno stato d’animo forse inconfessabile ma presente nell’intimo. La mia storia personale, i miei ideali rifiutano tali atti, queste prese di posizione. La ragione, l’etica o il semplice buon senso prevalgono e controllano i “maldipancia”. Per fortuna. Ma non succede sempre così, non succede a tutti così. Nel mondo non esiste l’armonia perfetta, l’equilibrio permanente. Il mondo va avanti mosso dal caos. La combinazione folle e frenetica, lo scontro quotidiano, la follia che diventa regola. È la natura dell’uomo che si libera e si scatena. Un vero berserker vikingo. I nostri “giustizieri” vengono da differenti esperienze individuali, da diversi percorsi sociali. Hanno ragioni forse molto distanti l’uno dall’altro. Sono anche una metafora di una società allo sbando con i pochi punti di riferimento ancora in possesso che si spezzettano fino a dissolversi. Un atto disperato per ristabilire un punto di ancoraggio perché tutti abbiamo bisogno di un’ancora.
Tutte e due le considerazioni. Per un romantico malinconico come me l’idea della ruggine è più calzante. E poi ogni romanzo ha una sua storia, un suo incontrarsi. Il trai d’union tra Tobacco e La giustizia è di sicuro la figura del loser. Era un perdente l’investigatore Filzi, sono perdenti i componenti della squadra dei giustizieri. Perdenti ma con dignità, con orgoglio e con ideali fuori moda. Beatiful losers per citare Leonard Cohen.
Esplorare i territori del racconto di genere, che sia un fumetto o un romanzo, è ancora il modo migliore per una narrazione della società e delle sue derive? Non pensi che il graphic journalism oggi possa essere uno strumento migliore?
Sono due cose diverse. Come dire che Milena Gabanelli è per forza meglio di Ken Loach. Io non ho mai fatto graphic journalism anche se sarei curioso di confrontarmi con i suoi sguardi. Penso che siano approcci narrativi di grande impatto se usati con intelligenza e metodo. La narrativa tout court forse consente di avere le mani più libere, di potersi gestire attraverso iperboli, slanci poetici, intrecci narrativi, con il graphic journalism invece hai a che fare con il rigore del racconto della realtà o perlomeno della realtà che vedi e che capisci. Il graphic journalism è una forma narrativa molto giovane, con enormi margini esplorativi. Al momento c’è poca letteratura in merito e diventa difficile cercare di individuare dei parametri. Pensa alla grande differenza tra Palestina di Joe Sacco e i Quaderni Ucraini di Igort. In uno l’autore ha scelto di esserci, di raccontare in presa diretta con i suoi occhi, nell’altro caso l’autore si fa quasi invisibile, soprattutto nella forma lessicale. Due modi d’approccio molto differenti eppure estremamente stimolanti. Potrò dire qualcosa di più articolato nel momento in cui avrò attraversato entrambe le narrazioni. Ora posso parlare da lettore, un giorno chissà…
Come gli americani sta per Stan Lee e Jack Kirby. Mi ha sempre affascinato questo metodo di lavoro in cui anche chi non scrive ufficialmente scrive tra le righe architettando pagine e sequenze. Dopo i preliminari riguardo all’idea che mi aveva proposto Pino, è arrivato il soggetto esteso, una sorta di trattamento con scene lunghe e raccontate nei dettagli con dialoghi abbozzati. Su questo ho fatto la sceneggiatura, lo storyboard, che con il mio metodo è in pratica la stesura delle matite, dove inserivo i dialoghi esistenti e indicavo i mancanti, poi, mentre io disegnavo. Pino scriveva i dialoghi definitivi. Succedeva che strada facendo nascessero idee nuove, cambiamenti di rotta, insomma gli aspetti più intriganti del lavorare in coppia. Quando c’è feeling è bellissimo lavorare in coppia o in gruppo. Per me è fondamentale essere in armonia. Detesto il rapporto conflittuale con il partner di lavoro. Certe storie di grandi incazzature con sedie che volano mi piace leggerle solo nelle biografie. Non vedo la necessità di farsi del male nel momento creativo. Le battaglie, le sfide di solito le faccio con me stesso.
Sono interessato alla tecnica di disegno che hai utilizzato: sembra quasi che hai usato la matita senza inchiostratura su sfondi azzurri. E’ così? E c’è un motivo dietro la scelta di questo blu sbiadito che hai usato come tonalità per tutte le tavole?
Ho disegnato tutto a matita, quasi sempre 2B o 6B, quindi grafite molto morbida, su carta da spolvero con l’intervento dello sfumino di cartone pressato che amalgamava il segno. Molte tavole della Giustizia così come quelle del Ragno le ho disegnate stando in piedi, con impeto, a tratti con rabbia. All’inizio lo facevo senza accorgermene, poi l’ho fatto deliberatamente per lasciarmi andare, togliere i freni.
Per un anno ho disegnato così, abbandonando pennini e pennelli, solo matita e rabbia, con linee spezzate, tratteggiate con furia, con i neri formati dai vortici di intrecci. È stata un’esperienza bellissima, liberatoria ma prosciugante. Disegnare così richiede molta energia, anche perché entrambi i romanzi erano piuttosto lunghi.
L’azzurro sbiadito del fondo è arrivato in un secondo momento, nella fase digitale dove ho lavorato prima di tutto sui parametri dei grigi e del nero. Volevo ottenere un risultato ricco nella sua varietà di sfumature partendo da mezzi poverissimi, carta grezza, matita, gomma pane. Poi ho usato un fondo sbiadito che sa di autunno padano gonfio di pioggia e di nebbia. Un freddo livello di colorazione digitale che ho trasformato in carta vera. Ho raschiato la nebbia per fare affiorare le luci che a tratti sono violente e tagliente, mentre in altri casi si fanno largo a stento, quasi in un gesto di disperazione soffocata. Avevo iniziato La Giustizia che era autunno e pioveva sempre. Fuori era solo acqua e mi è venuto istintivo usare una tinta simile a ciò che vedevo al di là della finestra.
Prima di lavorare assieme, c’era già un rapporto di conoscenza tra te e Loriano Macchiavelli?
C’eravamo incontrati una sola volta tanti anni fa. È nato tutto con il Ragno. Loriano si è messo in gioco, ha fatto una cosa che pochi scrittori fanno di solito: tagliare parte dei testi per far sì che si trasformassero in immagini. Si è fidato di me, il che, superato i primi momenti di timore di non farcela, mi ha fatto molto piacere.
Come è stato approcciarsi al lavoro di Loriano Macchiavelli e come è avvenuta la realizzazione di questo libro?
C’era grande rispetto. Loriano ha inventato il giallo contemporaneo italiano. È stato il primo a intuire che Bologna era la città perfetta per raccontare il mistero. E anche in questo caso c’era da raccontare Bologna, una Bologna nascosta, quasi uterina. La città di sotto irrorata di canali sconosciuti alla maggior parte dei suoi stessi abitanti. Io avevo il compito di svelare questa città doppia, ombra cupa di se stessa. Ho iniziato i disegni qualche giorno dopo Natale, la città era coperta di neve, tanta neve e con Loriano siamo andati a fare un sopralluogo ai Bagni di Mario, una cisterna sotterranea con cunicoli e diramazioni infinite che si nasconde alle pendici dei ricchi e borghesi colli bolognesi. Tutto era sommerso dalla neve e si faceva fatica a entrare. Mi si è aperto un mondo nuovo e incredibile. Non vedevo l’ora di tornare a casa e mettermi al lavoro. E mi importava davvero poco che avrei dovuto trasformare alberi e tetti innevati in atmosfere torride tipiche delle estati emiliane come da sceneggiatura.
Riferimenti:
Otto Gabos, il sito: www.ottogabos.com
Il blog dell’autore: radioherzberg.blogspot.com
Recensione “La giustizia siamo noi”: www.lospaziobianco.it/28625-pino-cacucci-otto-gabos-giustizia-siamo-noi
Intervista originariamente pubblicata su www.bilbolbul.net/blog/?p=2199.