Terminati i convenevoli, ecco la bomba, inaspettata e temuta: in questi tempi di crisi, in un'ottica di riorganizzazione e di ammodernamento della struttura globale (che paroloni!), l'azienda ha deciso di unificare tutti i servizi in Polonia, chiudendo gli uffici dell'Europa Occidentale, Italia compresa naturalmente. La voce del capo è incrinata, sembra sul punto di piangere (molti colleghi sono con lui da anni), promette che farà il possibile per salvare il salvabile (i soliti prepensionamenti, ricollocamenti, mobilità, ecc.), che parlerà con ognuno di noi per cercare di trovare una via d'uscita per tutti.
Sgomento e silenzio si impadroniscono della sala. Qualcuno, specie tra i colleghi più anziani, comincia a piangere, altri hanno lo sguardo perso nel vuoto; io, nel modo più discreto possibile, lascio la sala e ritorno alla mia scrivania, per riprendere il lavoro. Da precario cronico, so bene cosa vuol dire trovarsi senza lavoro da un giorno all'altro e, con sorpresa, mi accorgo che, a parte il dispiacere per i colleghi con cui iniziavo a legare, l'annuncio non mi ha fatto nè caldo nè freddo: tanto qui sono solo di passaggio – mi dico – perchè preoccuparmi?
I colleghi, intanto, rientrano alla spicciolata, l'ufficio piomba in un silenzio irreale, rotto solo da qualche singhiozzo, dalle dita che battono sulle tastiere, da un telefono che squilla ogni tanto. E' quando arriva la pausa, che si scatena la bufera: "ma possono farlo?" o "chi mi riassume a 48 anni?" oppure "come faccio a pagare il mutuo?". Non so che dire: sono qui da pochi mesi e so che resterò per pochi altri ancora; non posso capire chi, invece, è qui da 15-20 anni e, d'improvviso, si ritrova nella mia scomoda pelle di lavoratore con la data di scadenza.
Qualcuno prova a sdrammatizzare: "bhè, almeno ce lo hanno detto in faccia, non hanno chiuso l'azienda mentre eravamo in ferie", ma c'è poco voglia di ridere. Non c'è neanche rabbia, però, solo stupore, smarrimento, paura. Guardando da esterno – perchè tale mi considero, l'essere precario ti nega, perfino, il senso di appartenenza -, non vedo nè voglia di combattere nè di difendere il posto di lavoro con le unghie e con i denti, ci sono solo fatalismo e rassegnazione.
Solo la promessa di ricollocare più persone possibile lascia acceso un barlume di speranza che, però, può diventare insidiosa: i posti a disposizione sono pochi, non sarà possibile salvare tutti, c'è il rischio che scoppi l'ennesima guerra tra poveri. Sembra quasi una beffa che, solo pochi mesi prima, si era tenuta la festa aziendale, con i dirigenti che parlavano di "gruppo unito", di "grande famiglia", di "remare tutti insieme per superare la crisi" e ora, invece, tutti a casa, per poter garantire, a qualche grosso azionista, un dividendo più sostanzioso.
"Perchè succede tutto questo?", mi chiedo. Da tutte le parti, ci raccontano sempre che è a causa del costo del lavoro troppo alto, che ci toglie competitività, ma so che si tratta di stupidaggini. Il costo di un'ora di lavoro, nel nostro Paese, è di appena 27,4 € – perfino in forte calo, tenendo conto che era pari a 34,15 € nel 2009 -, lontanissimo da quello della Danimarca, pari a 38,1 € o dell'Olanda, con i suoi 32,2 € l'ora, o della Germania, che si ferma a 30,4 € (dati Eurostat).
Certo, in Polonia il costo medio per un'ora di lavoro è di 7,3 €, ma allora perchè, solo da noi, le delocalizzazioni, i fallimenti di imprese, il crollo della domanda interna e la disoccupazione fanno tante vittime e con tale velocità. Non che negli altri Paesi non succeda, anzi.
Gli altri Paesi, però, non hanno una classe dirigente che, con sistemi che vanno dal parassitismo al criminale, ha creato un buco di 2.000 miliardi di euro, motivo per cui abbiamo la tassazione più asfissiante del mondo Occidentale. Gli altri Paesi non hanno una classe dirigente che sforna riforme assurde che complicano il mondo del lavoro, invece di semplificarlo. Gli altri Paesi non hanno una classe dirigente che colpevolizza i giovani (bamboccioni!, choosy!) e i lavoratori, additandoli come l'ostacolo alla ripresa, con le loro assurde pretese di un posto di lavoro in linea con studi e aspirazioni, di uno stipendio dignitoso e di una vita migliore.
Ed è anche colpa nostra, perchè se questa classe dirigente ha potuto fare ciò che ha fatto, è perchè glielo abbiamo permesso e ora ci tocca subirne le conseguenze. Bisogna reagire, altrimenti annunci del genere – già fin troppo frequenti – diventeranno impossibili da fermare.
Danilo