L'anonimo scribacchino

Da Gloutchov
«Mi chiamo Glauco Silvestri e sono 4 mesi che non scrivo». Davanti a me vedo un gruppo di volti che annuiscono computamente e riflettono sulla propria realtà, oltre che sulla mia, quella che sto cercando di esternare. «Ho comprato la chitarra», affermo quasi sotto voce, gli occhi puntati addosso mi intimidiscono «e ora, la sera, invece che scrivere, suono». Aggiungo «Magari scriverò qualche testo di canzone; anzi, due li ho già scritti», esito «senza contare quelli... buffi!». «L'ultima storia che ho scritto è l'episodio finale della mia saga noir, quella di Mauro Bianchi». Affermo e risollevo lo sguardo «Da allora, ho giusto lavorato all'editing di ciò che avevo già in mente di pubblicare. Non mi piace lasciare le cose a metà». Qualcuno si alza e si allontana lungo il corridoio centrale, quello poco illuminato, che conduce direttamente all'uscita. I suoi passi echeggiano come colpi d'accetta su un collo adagiato sull'incudine. Una decapitazione formale, probabilmente, che mi spetta. «Se tutto va bene, a luglio, avrò esaurito ogni pubblicazione. Una al mese... fino all'estate». Mi guardo attorno, la gente mi guarda di sbieco «Ad agosto dovrei rinnovare il dominio, il sito...». Una donna starnutisce sommessamente. Io sudo copiosamente. I riflettori sono tutti puntati su di me, e non c'è alcun tipo di ventilazione a difendermi da quel dannato calore. «I motivi per cui smetto sono sempre i soliti, non voglio più tornarci sopra. Chi è stato attento li conosce, chi invece è stato distratto, dovrà andarseli a cercare. Ora voglio solo guardare avanti». Qualcuno accenna un applauso, ma gli altri non seguono l'invito. Un paio di ragazze ridacchia in fondo alla sala; quando notano il mio sguardo, si alzano ed escono. «Credo di poter essere soddisfatto del percorso che ho compiuto, dei risultati che ho ottenuto, in questi quattro mesi. Credo che il futuro potrà essere solamente più facile». Ora l'applauso riesce a scoppiare. Il fragore è quasi insopportabile. I volti annuiscono. Non li riconosco, sono quasi tutti in ombra, mentre io sono circondato da un fascio luminoso rovente. Mi sento quasi rinfrancato, quegli applausi, mi fanno dimenticare le difficoltà superate. Forse sono davvero giunto sulla vetta, forse sono davvero in grado di vedere la valle, e di poter valicare il confine. Poi, una voce arriva dalle mie spalle.  Passi sul parquet del palco. Tutti si zittiscono. Gli applausi cessano all'unisono. Solo due mani insistono, con un ritmo lento, cadenzato, severo. L'uomo si avvicina. Indossa scarpe nere, pantaloni neri, una maglietta nera. Ha la barba, grigia, stinta dal tempo. I suoi occhi sono gentili, ma anche risoluti. Sorride, ma il suo non è un sorriso di simpatia. Mi si avvicina e si rivolge al pubblico «Merita un applauso, avete ragione», afferma «ma prima vorrei porgli una domanda». E' come se sentissi un eco di sorpresa. Un eco inespresso. Non vocale, piuttosto un suono proiettato direttamente dalle menti. L'uomo annuisce e si rivolge a me «Hai più avuto idee?». Io esito. «Coraggio, rispondi. Hai più avuto nuove idee? C'è una storia che vorresti scrivere ma ti trattieni dal farlo?». Abbasso lo sguardo, mi sento colpevole. Ora mi rendo conto che la mia anima non si è alleggerita di un grammo dal giorno in cui, quattro mesi fa, avevo deciso solennemente di smettere. Il pubblico attende in silenzio. L'aria è pesante, rovente, e non lo è per via dei faretti che sparano un fascio di luce dritto contro la mia nuca. Annuisco lentamente. La folla inorridisce. «Dillo con le parole». «Sì, ho un'idea che mi tormenta». L'uomo annuisce «E la vorresti scrivere?». «Sì». Ecco che la folla si ritira, mi biasima, di giudica colpevole. «E hai iniziato a scriverla?». Mi ribello «No, non l'ho fatto». Quasi grido. Ho i brividi. Mi tremano le mani. Ho paura. «Però ci pensi ogni giorno che passa... è tutta nella tua testa, vero?». L'uomo ha ragione. Cado in ginocchio. Gli afferro una gamba. Piango. Chiedo perdono. Le mie parole escono contorte, quasi incomprensibili. L'uomo mi solleva il volto con un dito «Ora hai di che pensare...» dice «Torna tra i tuoi compagni e rifletti sulla tua situazione». Annuisco ma non mi alzo da terra. Lui mi guarda severo «Alzati!». Io non mi alzo. Lui mi allontana con un gesto violento. Cado a terra. Non riesco a trattenere le lacrime, la vergogna, la debolezza. «Vattene!», dice lui senza pietà «Vattene e non tornare fino a che non avrai davvero capito ciò che desideri fare».