In un'altro senso vi è nei più disparati angoli della terra e a partire dalle più diverse civiltà un continuo successo di casi isolati, attraverso i quali si manifesta di fatto, un tipo superiore: un qualcosa che in rapporto all'umanità nl suo insieme è una sorta di superuomo. Simili casi fortunati di grande riuscita son stati sempre possibili e forse semore lo saranno. E perfino intere generazioni, stirpi, popoli possono, in determinate crcostare rappresentare un caso vincente.
é uno spettacolo doloroso, orribile, quello che mi sta di fronte: ho tirato via il velame della degenerazione dell'uomo. Questa parola, sulle mie labbra, è al riparo almeno da un sospetto: quello di racchiudere n'accusa morale all'uomo. Essa è detta-vorrei sottolineare-in senso scevro da ipocrisia morale: e ciò fino al punto che quella degenerazione viene da me avvertita più sensibilmente proprio là dove finora si anelava, con la massima consapevolezza, alla virtù, alla divinità. Intendo degenerazione, già lo si indovina, nel senso di decadence: io affermo che tutti i valori in cui l'umanità compendia in questo momento la sua idealità suprema sono valori di decadence.
Chiamo un animale, una specie, un individuo degenerati quando hanno perso i propri istinti, quando scelgono, quando preferiscono, ciò che li danneggia. Una storia dei "superiori sentimenti", degli "ideali dell'umanità",-e uò essere che sia io a doverla raccontare- sarebbe a un dipresso anche la spiegazione del perchè l'uomo sia così degenerato.
La stessa vita vale per me in quanto istinto di crescita, di durata, di accumulazione di energie, di potenza: dove la volontà di potenza manca è il declino.
Il cristianesimo è detto religione della compassione.
-La compassione si contrappone agli effetti tonici, quelli che accrescono l'energia del sentimento vitale: essa ha un effetto deprimente. Quando si compatisce si perde forza. Col compatire la perdita di energia, che già di per se il dolore arreca alla vita, si accresce e si moltiplica ancora. Il soffrire stesso diventa, attraverso il compatire, contagioso; in certi casi si può giungere a una perdita complessiva di vita e di energia vitale assurda in proporzione al quantum della causa(-è il caso della morte del nazareno). Questa è la prima considerazione, ma ve n'è un'altra più importante. Posto che si misuri la compassione in base al valore delle reazioni che essa suole suscitare, appare in una luce ancora e assai più chiara il carattere deleterio di essa in ordine alla vita. La compassione intralcia totalmente la legge dell'evoluzione, che è legge della selezione. Essa conserva ciò che è maturo per la fine, oppone resistenza al vantaggio dei diseredati e dei condannati dalla vita, essa conferisce alla vita stessa, attraverso l'abbondanza di malriusciti di ogni specie che conserve in vita, un aspetto grigio e precario.
Hanno osato chiamare virtù la compassione(-in ogni morale aristocratica è tenuta per debolezza-); sono andati oltre, hanno fatto di essa la virtù, substrato e origine di ogni virtù- questo però, cosa che non dobbiamo mai perdere di vista, dal punto di vista di una filosofia che era nichilista, che sulla propria insegna recava scritta la negazione alla vita. compatire è la praxis del nichilismo. è il caso di ripeterlo: questi istinto deprimente e contagioso ostacola quegli istnti che tendono alla conservazione della vita e al suo incremento di valore: sia come moltiplicatore della miseria, che come conservatore di ogni miserabile, esso è uno strumento primario per l'accrescimento della decadence-la compassione induce al nulla! ......Uno non dice il "nulla": dice invece "al di là";oppure "dio"; oppure "la vera vita"; o nirvana, redenzione, beatitudine..Questa innocente retorica,del regno dell'idiosincrasia morale religiosa, appare subito assai meno innocente, appena ci si rende conto di uale inclinazione qui si celi sotto il mantello di sublimi parole: una tendenza antivitale.Schopenhauer era ostile alla vita: per questo la compassione divenne per lui una virtù. Aristotele, com'è noto, vedeva nella compassione una condizione morbosa e pericolosa dalla quale uno farebbe bene a liberarsi di quando in quando con un purgativo: egli intende la tragedia come una purga. Dal punto di vista dell'istinto vitale si dovrebbe in effetti cercare un mezzo per vibrare una stoccata ad un tale pericoloso accumulo di compassione quale è quello rappresentato dal caso Schopenhauer (e purtroppo anche da tutta la nostra decadence letteraria e artistica da San Pietroburgo a Parigi, da Tolstoj a Wagner): affinchè scoppi. Nulla è più malsano, in mezzo alla nostra malsana modernità, che la compassione cristiana. Bisogna ever visto la sorte funesta da vicino, o meglio, bisogna averla provata su di sé, bisogna per essa aver quasi raggiunto l'annientamento per non ammettere più alcuno scherzo in proposito (uno scherzo è, ai miei occhi, il libero pensiero dei nostri signori naturalisti e fisiologi,- a loro manca la passione in queste cose il soffrire di esse-). Quell'avvelenamento arriva molto più lontano di qianto si pensi. Ho ritrovato l'istinto teologico dell'altergia in tutti i luoghi in cui oggi ci si sente idealisti,- ovunque in virtù di una superiore provenienza, si accampi il diritto di guardare alla realtà con superiorità e distacco..L'idealista, né più né meno che il prete, ha tutti i grandi concetti in mano, eli gioca, con benevolo disprezzo contro l'intelligenza, i sensi, gli onori, il vivere bene, la scienza...,egli vede cose del genere sotto di sé, come forze dannose e seduttrici, al di sopra delle quali lo "spirito" aleggia nel suo puro per-sé:- come se umiltà, castità, povertà, in una parola la santità non avessero finora arrecato alla vita infinitamente più danno di chissà quali orrori e vizi...Il puro spirito è pura menzogna..Fino a quando il prete passerà ancora per una superiore specie d'uomo, questo negatore, denigratore,avvelenatore di professione della vita, non vi sarà risposta alla domanda: che cosa è verità? Uno ha già capovolo la verità quando il consapevole avvocato del nulla o della negazione passa per rappresentante della "verità".
Il "phatos" che da ciò si sviluppa prende il nome di fede: chiudere una volta per tutte gli occhi su ciò che ci sta davanti per non soffrire dell'aspetto di un inguaribile falsità.
Friedrich Nietzsche "L'anticristo" 1985
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