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L’antropologo René Girard tra violenza nelle religioni e rivoluzione cristiana

Creato il 27 novembre 2011 da Uccronline

L’antropologo René Girard tra violenza nelle religioni e rivoluzione cristianaIn un articolo apparso poche settimane fa su “L’Occidentale”, il giornalista Luca Negri , collaboratore presso “Il Sole 24 Ore” e “Libero”, affronta la questione della violenza nelle religioni. Inutile dire, come spiega il giornalista, che “differenti convinzioni di possedere la verità con la V maiuscola non possono che entrare in contrasto; la storia stessa, cronaca recente compresa, offre miriadi di esempi di guerre religiose”. Estremizzando, “molti atei od agnostici sono giunti alla conclusione che un’umanità senza culti vedrebbe la scomparsa della violenza organizzata. Anche se, a dire il vero, la storia del Novecento ha come nefasti protagonisti sistemi di pensiero che negavano il trascendente o lo mettevano fra parentesi. Ed è noto cosa abbiano combinato. Il rifiuto di un credo tradizionale, infatti, non può che condurre ad altre forme di divinizzazione: “Umanità, Stato, Razza, Classe, Mercato”.

La tesi che vedrebbe nei conflitti un’origine religiosa trova comunque una valida confutazione nel pensiero di René Girard, critico letterario ed antropologo, professore emerito all’Università di Stanford negli Stati Uniti e membro dell’Académie Française dal 2005. Secondo Girard, “la violenza religiosa riguarda in primo luogo la natura umana. Più che determinata dalle credenze, lo è da tensioni sociali e antropologiche”. I culti arcaici pre-cristiani “non erano nati per svelare i misteri dell’universo, come pretende la forma mentis illuminista. L’urgenza primaria era quella di armonizzare, sedare, neutralizzare le tensioni violente della comunità. Per sopravvivere ai contrasti fra i desideri degli uomini, che avrebbero annientato la civiltà, si dovette ricorrere al sacrificio rituale. La tribù, il clan e la città trovavano un capro espiatorio contro il quale coalizzarsi, da uccidere, spesso da divinizzare dopo l’esecuzione. Il sangue versato garantiva una catarsi, un sollievo che cementava la comunità; era possibile continuare a vivere in relativa pace, fino al prossimo sacrificio”. Le religioni antiche, quindi, esorcizzavano la guerra e, se non potevano evitarla, la “facevano rientrare in una maggiore armonia universale. La violenza non era mai fine a se stessa, ma sempre sacrificio, non causa di violenza, ma effetto”.

L’articolo prende poi in esame la tradizione giudeo-cristiana, evidenziandone la radicale differenza con tutto ciò che lo ha preceduto: “Se le narrazioni pagane ed arcaiche sono scritte dal punto di vista della folla che si crede innocente, si fa giustizia da sé e lincia il capro espiatorio, i protagonisti dei salmi, i profeti dell’Antico Testamento e ovviamente Gesù Cristo sono proprio le vittime. La violenza viene demistificata, il sacrificio diventa obsoleto, superato dalla scelta divina di incarnarsi e patire la violenza umana che pretende di essere giustizia: “Il moderno interesse per le vittime, la tutela del debole, è il vero lascito della cultura giudaico-cristiana, non la giustificazione della guerra per motivi religiosi”. Quello cristiano è “un Dio che chiede e dà amore sacrificandosi per l’umanità ed insegnando la colpa reciproca e la conseguente necessità di perdono”.

Filippo Chelli


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