Dal demone piazzato sulla sua spalla grondava un calore insopportabile. Eros Salvini era consapevole di star sudando in modo incivile, anche se gran parte del fenomeno si concentrava sotto l’ascella corrispondente alla sensazione, e fatto salvo che la questione, dopotutto, non lo smuoveva più di tanto.
Se ne andava sul lato contromano della strada stringendo la sua presenza intristita sulle saracinesche chiuse del marciapiede sinistro, in modo da proteggere almeno la zona di olezzo acido che la presenza del demonio sviluppava fuori di lui.
La gente lo incrociava sgarbatamente e lui teneva gli occhi bassi per una forma protettiva di compunzione sociale. Tutto quel saettare di sguardi di di valutazione, di sfida e di controllo, gli dava l’idea di una grande guerra mentita che si giocasse all’oscuro di tutto, come se la funzione collettiva del vedere implicasse il dominio schizoide utile a dominare la consolle di una playstation.
Non è che non avesse voglia di giocare, Eros, il motivo della propria risposta melanconica era dovuto all’incapacità di raffigurarsi una domanda, piuttosto, di formulare uno scopo. Sapeva di dover scontare una qualche forma di pena come tutti, comunque, e avrebbe voluto esser capace di interrogare il demone così, senza dargli troppo peso, per una forma sempliciotta di curiosità dissociata.
A grandi linee, era da un po’ che covava una solitudine losca, un desiderio sordo di rovina. Teneva celato in sé tutto il plastico di una grande scena corale risolutiva, avrebbe voluto poter battere le mani fuori volgarmente, a scena aperta.
Ecco, le mani, erano un rovello. Immaginava mani grandi e piccole, contratte e rilassate, mani infilate nelle tasche o perdute negli arabeschi esplicativi dei discorsi di bassa lega, pensava al rapporto tra mani e anima su una guancia, al sospiro o allo schiocco violento, immaginava l’impugnatura di uno spillone, di una pistola o di un martello, credeva alle mani come a quell’eccezione naturale che aveva imposto l’emergere di una civiltà, e tutto il sentimento disturbante che ne consegue.
Poteva essere un feticista delle estremità, in fondo. Così si immaginava la fine del mondo, come una grande caduta collettiva di mani e braccia operata da un tizio col passamontagna nero, una batteria infinita di mannaie a motore ibrido e un negozietto di casalinghi cinesi dove le ceste di vimini colorato per raccogliere i tronchi costano niente.
Il disegno che il demone gli andava prospettando, tuttavia, pareva diverso. Più Eros piombava gli occhi in basso nella ricerca di una concentrazione utile alla realizzazione del proprio desiderio, più la presenza sinistra gli indicava di sollevare il mento senza fare storie, di guardare dritto in faccia qualcosa di unico che avrebbe potuto trovare soltanto negli occhi della gente.
Si si, la grande empatia, va bene ragazzi, se proprio insistete, va bene, guarderò e poi ne riparliamo. Intanto fatemi comprare le sigarette che la domenica è una pena, vi pare? Un po’ come davanti a una puttana chiusa, rimani lì e non sai più che fare, hai solo paura di tornare a casa presto.
Chi lo sa perchè Eros impiegasse tutta questa retorica collettiva nei propri discorsi, comunque era chiaro che il modo facesse scalpore nella gente, non ti puoi rivolgere a tutti come fossero ognuno, basta niente e ti danno del matto.
Mettetela come vi pare, lui era capace di pensare oltre che di reagire, così aveva deciso di provare ad alzare lo sguardo. Quella del demone gli pareva una ragione plausibile come un’altra, anche se provava un po’ di dispiacere nel dover abbandonare la visone dell’apocalisse poggiata sulle mani.
Un pacchetto di Lucky Strike Blu, da dieci, tipo Originale, quelle con il pacchetto marrone.
Fu questa la strategia d’esordio nel mondo degli sguardi adulti, diretti, focalizzati, con tutti i problemi di comprensione che un’inezia del genere può provocare. Il gas dell’attenzione degli esercenti è volatile come la moneta, basta una stringa di dieci parole per far grippare la comprensione; un fatto che arriva allo -Strike-, qualche volta al -blu-, persino, in ogni caso la gente non ha un valore da perdere e tu devi ripetere più volte, come a tuo figlio che sta snervando il Gameboy.
La tabaccaia l’aveva guardato brutto e di traverso, un secondo, in quelle occhiaie di rimozione colpevole con cui un tabaccaio di periferia che non t’ha mai visto cerca di pesarti, di valutarti e annientarti nella fantasia, prima di metterti lo scontrino fiscale proprio sotto il naso, prima ancora di consegnarti le sigarette, ostentando bene il raggio della propria vacca rettitudine fiscale.
Vedi, aveva detto il demone, nel sudore dell’ascella. Il ghigno di corredo s’era ripercosso nel profondo, fino a turbare leggermente l’equilibrio delle sue mucose vagali.
Eros con le sigarette di domenica e una missione imprecisa da compiere. S’era sentito un altro per qualche decina metri e aveva persino abbandonato il lato sinistro del marciapiede, attraversando la strada.
Tutto l’essere civico in lui, oltre lo sguardo, provava a rialzare la testa, così s’era stupito della presenza di un gruppetto di vigili che gli sembravano insolitamente passionali mentre distribuivano multe a pioggia sui parabrezza delle automobili parcheggiate intorno, una bastardata mai vista di domenica mattina.
Chiese quindi, gentilmente, se per caso costoro sapessero del tempo, cioè di quando avrebbe finalmente aperto la maledetta fermata della metropolitana sulla piazza che tutti attendevano come l’avvento, e i cui lavori di rifinitura duravano oramai da cinque anni buoni.
Come una persiana sbattuta da un maestrale della Gallura, la vigilessa s’era voltata di scatto, lo sguardo paranoico sotto il caschetto aveva faticato non un istante ma due, prima di cedere malvolentieri la via a un’uscita incivile sul fatto che: siamo tutti sulla stessa barca bello mio, vigili e cittadini, Eros e Thanatos e governo pure, -stiamo sereni- e spaesati, di domenica, con la tabaccaia e gli scontrini e MacDonald che batte il piede nervoso sul lato opposto della piazza senza sapere quando, quando, quando.
Fu incredibile come quella rivelazione potesse raggiungere in qualche modo strano la pianta del piede di Eros, al livello dello schema reflessologico cinese, ed era comunque un deciso passo avanti per l’unificazione dei paradigmi di cura dell’individuo, secondo lui. Ma ciò cui era più difficile credere, in definitiva, era la scomparsa del demone dalla propria spalla.
Avrebbe voluto trovare qualcuno cui dirlo, subito lì, dietro le spalle della Municipale, invece fu costretto ad attraversare la piazza per incontrare ancora altri individui, gente che facevano capannello intorno alla porta basculante del Mac.
Due amiche di mezz’età, in particolare, sembravano vivere in quell’ingresso da sempre, tanta la confidenza con cui si scambiavano le voci alte, tanta la consistenza corpacciuta con cui impedivano l’accesso al locale che furoreggiava di schiamazzi trascesi, come fosse un’audizione di sciampiste per la cotenna di dio.
Eros intendeva farla finita con una classica colazione sconto: Maxi-nocciolone caldo+Cappuccino chiaro bollente con ghirigori di nutella a uno e novanta, e chi s’è visto s’è visto. Farla finita nel senso che per una domenica poteva bastare con questa storia, andare in giro qua e là per la piazza come un gatto allucinato, come un Jobsact di Metrebus, come un Bertazzoni a Servizio Pubblico, con i fantasmi grotteschi nelle intenzioni e l’ansia del ritorno in cuffia.
L’amica della porta che guardava nel verso di Eros lo trafisse ancora una volta con quello sguardo paranoico d’ordinanza delle vetrine male allestite, ma meno di una frazione di secondo questa volta. Un riflesso rettile come un altro, tanto infinitesimale nelle dimensioni quanto denso nella sostanza, così carico di drammatica auto-consapevolezza pronta ad opporsi al nemico a morsi, benchè fondata nella paura di non ricevere il giusto castigo. Per cosa, non si sa nemmeno bene.
Un po’ come se tutte le brutture del creato fossero capitate senza rimedio a quella finta bionda sulla via dell’obesità, alle calze d’arabesco bengalese che la tiravano giù, ai tronchetti pieni di catenelle che gli mangiavano il resto delle zampe caprine, alla voce stridula che cercava di nasconderne il conto, alla vacua volgarità con cui finisce questa storia qui, in un deprecabile affanno.
Per quel che ne sa Eros l’infiammazione poteva aver raggiunto il cuore della terra secondo il principio della sindrome cinese, con un inchino rispettoso, senza un filo di spargimento di sangue. E senza nemmeno infilare quel ridicolo passamontagna nero da invasato alla bancarella, diobono. Si può fare tranquilla apocalisse in un cipiglio.
Chi ti dice poi che Eros, un lunedì come un altro, non sarebbe più entrato attraverso la luce di quella maledetta porta, mano nella mano.
di Alessandro Gabriele