L’ “Area 51” di Cosa nostra

Creato il 15 luglio 2011 da Casarrubea

In un’ intervista rilasciata dal Pm Francesco Del Bene, nel mese di aprile 2011, a Telejato, il magistrato  spiegava che in Sicilia, e soprattutto nelle provincie di Trapani e Palermo, la mafia di Partinico è vista come un’entità a se stante,  un fenomeno quasi autonomo.  Non una mafia che si piega, ma che tratta con tutte le altre mafie, da pari a pari.

Anche se questo medio centro è stato, negli ultimi decenni, una terra apparentemente marginale, oggetto di appetiti di varie cosche in guerra fra di loro, tuttavia,
l’affermazione di Del Bene ha un suo fondo di straordinaria verità.

Le intercettazioni e le confessioni dei pentiti,  confermerebbero questa condizione di  isolamento che taluno ha cercato di meglio definire  interpretando
la Cosa Nostra di questo paesone della provincia di Palermo, come una sorta di
allegoria dell’”Area 51”.  Ossia alla stregua della base supersegreta dell’aviazione americana nel deserto del Nevada, dove si vocifera che i Servizi segreti Usa nascondano, addirittura, delle astronavi aliene precipitate negli ultimi decenni. In una parola, Ufo
pilotati da omini piccoli e verdi.

E’ forse un caso che il poliziotto italo-americano Joe Petrosino sia stato ammazzato a Palermo nel 1909 da due partinicoti? O che partinicoto doc fosse anche  Frank Coppola, alias Frank Tre dita, nominato da Lucky Luciano, nel dopoguerra, “ambasciatore” della nuova mafia siculo-americana in Italia? Ed è una circostanza fortuita che, prima di lui, il
boss Santo Fleres, democristiano che univa in sé il senso della religione
cattolica a quello del potere temporale e politico, fosse anche lui un capo locale di primo livello?

Di Partinico era anche Nenè Geraci, morto, quasi centenario, qualche anno fa. Nel suo letto, come si addice ai grandi patriarchi. Membro della cupola per qualche tempo, rappresentò egregiamente l’ “Area 51”.  “U zù Nenè” non era, però, un isolato. Di lui il pentito Antonino Calderone ci dice che al tempo della strage di Ciaculli (1963) e dell’uccisione di Salvatore La Barbera e don Cesare Manzella, saltato in aria anche lui su una Giulietta, si incontrava a Catania con un bel manipolo di galantuomini. Vi erano Totò Greco, alias “Cicchiteddu”, e Antonino Salamone, Gerlando Alberti e Gianni La Licata.
Tutti latitanti alla ricerca di come fare per chiudere la prima guerra di
mafia. Animati da uno speciale senso di pace, volevano mettere fine a un’epoca
per aprirne un’altra. Per le nuove generazioni di uomini d’onore, naturalmente.

E non parliamo del direttore del Giornale d’Italia, Santi Savarino, al quale l’Antimafia nazionale dedica diverse pagine grazie alle virtuose frequentazioni che questo
intellettuale amico di Curzio Malaparte aveva con Frank Tre Dita, suo
compaesano illustre. Come, del resto, quelle che riferiva l’Fbi nei suoi
rapporti, alla fine degli anni ’50. Quando il notabile partinicese teneva i
contatti con il boss dei boss Salvatore Lucania, di Lercara Friddi, in arte Lucky
Luciano. Un grande uomo il Savarino, a tal punto che  il suo paesello natio ha ben pensato, parecchi anni fa, di intestargli un Liceo Statale, tuttora attivo. Senza che nessuno
osasse protestare.

Nell’ “Area 51” ci possono essere solo fenomeni strani. Non è un caso che qui non ci sia una
strada, una piazza, un edificio, una lapide, una traccia di monumento intestata
a quel grande uomo che fu Danilo Dolci. Eppure, questo sociologo che aveva il
torto di venire dal Nord e di non essere partinicese come quelli di cui abbiamo
parlato, aveva speso tutta la sua vita per dare l’acqua alle campagne di un
paese da sempre assetato,  scuole per le nuove generazioni, e persino un centro internazionale per lo sviluppo creativo, come quello di “Borgo di Dio”.

Evidentemente ognuno ha il dio che si merita e c’è un dio al servizio del potere e un altro dio che lava i piedi di chi questo potere non l’avrà mai. Così è potuto succedere che
don Agostino Coppola,  da prete e amministratore dei beni della diocesi di Monreale, entrasse nel novero dei potenti di una chiesa da un lato santa e romana, cattolica e universale come ci hanno spiegato essere quella che ha un papa che nomina santi e cardinali, e dall’altro tenebrosa e violenta come “Cosa Nostra” che, senza le scenografie
della prima, è più adusa a trattare le faccende terrene, più terra terra.

Ce ne dà conferma Antonino Calderone quando dice che padre Agostino, il cassiere del sequestro Cassina,  è quello che celebra le nozze tra Totò Riina,
ancora latitante, e Ninetta Bagarella o che partecipa ai banchetti organizzati
da Tano Badalamenti a Cinisi per dare ospitalità al latitante Luciano Liggio,
suo compare.

Ma il nostro reverendo è anche il mediatore nei sequestri di persona fatti
dai corleonesi. Oltre a quello di Luciano Cassina, ce ne sono altri due che
all’epoca fecero scalpore: i sequestri di Luigi Rossi di Montelera (1976,
condanna a quindi anni di galera) e dell’industriale Emilio Baroni.

Ma i marziani di Partinico non vivono solo di queste luci abbaglianti, o di meteore
come quelle di Vito Vitale, alias Fardazza, tradizionalmente legate ai
corleonesi di Totò “U curtu”. Nella loro specificità, gli omini verdi, sono
stati identificati mentre calpestavano le scene terrestri, da molti
avvistatori. Ad esempio durante l’indagine denominata “Chartago”  si è visto che
mal tolleravano i vicini di casa di Borgetto, la cui specialità è di fare
sparire nel nulla le persone. Come successe una volta al costruttore Valenza e
al consigliere comunale Mandalà.

Insomma, i boss partinicesi partecipano alla vita di Cosa Nostra, ma vogliono essere
sempre se stessi. Dopo l’arresto dei fratelli Leonardo e Vito Vitale, una
guerra di mafia provoca sette morti e un tentato omicidio. Senza contare la
lunga catena di attentati incendiari, o la sequela degli atti intimidatori a
danno di coloro che non vogliono mettersi le fette di salame negli occhi.

Allora ci si deve chiedere: quale posto occupa Partinico nello scenario della mafia
siciliana, nazionale e internazionale? Cosa hanno rappresentato nel tempo i
suoi rapporti storici con i capi della mafia newyorkese?
C’è stata solo una guerra, di tipo territoriale, per il controllo del racket e degli appalti? O qualcos’altro?  All’inizio del 2009 i Carabinieri scrivono che “L’area di Partinico
è strategica perché costituisce la cerniera fra la mafia trapanese, che ha come
capo indiscusso Matteo Messina Denaro, e quella palermitana, che ha
storicamente ricoperto sempre un ruolo centrale negli equilibri di Cosa nostra
siciliani e internazionali”.

Forse c’è qualcosa di più, nel profondo. Basta un semplice scavo. Necessario perché non
ci sono solo le famiglie mafiose a far registrare la loro presenza e il loro
ruolo sul territorio, come abbiamo visto. Probabilmente occorre andare oltre le
mere questioni di natura geografica e locale, perché non è possibile separare
con un taglio netto i caratteri di certi fenomeni a seconda che rientrino in
una provincia o in un’altra.

C’è, ad esempio, una specificità che consiste nella particolare storia che ha avuto
Partinico nel corso dei secoli. Nasce come feudo ecclesiastico, di cui mantiene
le caratteristiche fino a buona parte del Settecento. Diventa territorio del
baronaggio siciliano, costretto ad essere rappresentante degli enfiteuti,
beneficiari di concessioni altrui. Assume
la forma amministrativa di quinto quartiere di Palermo,  e poi centro del potere della borghesia terriera, saltando la mediazione feudale tipica dei feudi dell’entroterra
isolano. Alla fine conosce la piccola e media proprietà, assorbendo o
eliminando la manodopera dipendente dentro la microimpresa produttiva. Da qui
una mafia non parassitaria, ma fortemente connessa con il potere politico.

Le caratteristiche di questa mafia sono le sue connessioni speciali o con
l’istituzione ecclesiastica o con quella dello Stato. Con il seguito di tutte
le loro variabili culturali: il senso distorto del tempo, il dogmatismo, l’obbedienza
e via di seguito. Insomma, come scrissero gli americani quando sbarcarono in
Sicilia nel luglio 1943, un paese fuori dal mondo. Dove la ragione non esiste,
e la parola ha perso il suo senso.

Giuseppe Casarrubea


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