La notizia dell’improvvisa morte di Néstor Kirchner, in coincidenza con un memorabile censimento che ha aperto le case argentine alle visite di migliaia di ragazzi incaricati delle operazioni censuarie, ha avuto una eco limitata in Italia, paese che si interroga da giorni sulla sorte delle minorenni buttate in un pozzo o nei lettoni di Putin. In America Latina invece se ne è parlato a lungo. Per validi motivi.
Néstor Kirchner è diventato presidente nel 2003, in un contesto sociale e politico in cui i precedenti mandatari erano stati ripetutamente costretti alla fuga (anche in extremis dai tetti della Casa Rosada) da una delle più conseguenti insurrezioni popolari degli ultimi anni. Quasi sconosciuto, periferico coi suoi modi patagonici, circondato da barzellette sul tipo “flaco y feo” con la moglie appariscente, N.K. è salito alla Rosada in un momento in cui nessuno pensava di poterlo fare impunemente e in maniera duratura.
È toccata a lui e ha dimostrato di non essere arrivato a Buenos Aires per farsi macellare come un vitello del sud. Astuto, cocciuto, sempre vestito uguale, patagonico anche nel carattere forgiato dalle avversità meteorologiche, N.K. ha saputo essere nel bene e nel male un politico scaltro e abile. Per chi come me vede le cose in chiave antiautoritaria e non è abituato a lodare i potenti, viene perlomeno da dire che Néstor è stato il meno peggio tra i presidenti dall’epoca alfonsiniana del ritorno alla cosiddetta democrazia. Per scelta o per calcolo politico, doveva governare in un contesto sociale segnato dalle ceneri ancora calde di una poderosa mobilitazione popolare, e spingere il timone a sinistra per evitare di essere rovesciato dalla piazza era l’unica scelta sensata. Ma non credo sia stato solo opportunismo il suo. La sua politica dei diritti umani è stata apprezzabile. Non si è limitato a rimuovere da una galleria dell’Esma, l’inquietante scuola della Marina che ospitò un centro clandestino di tortura, il ritratto dei macellai Videla e Bignone, presidenti della giunta militare (cosa che comunque ha fatto scalpore). Ha anche cancellato coraggiosamente le infami leggi di impunità (Ley de obediencia debida e Punto final) che garantivano ai militari protagonisti di torture e di assassinii il diritto di morire nelle proprie ville. Con conseguenze non solo simboliche: si sono riaperti i processi ed è arrivata qualche tardiva condanna.
Sicuramente accorta è stata la politica kirchneriana di dialogo (se vogliamo di recupero nell’alveo istituzionale) sia con le Madres de Plaza de Mayo che con i piqueteros, di cui – si deve ammettere – ha ridotto la combattività gestendo astutamente, nella tradizione peronista, l’elargizione del sussidio di disoccupazione. Un suo merito è stato quello di aver negoziato il debito nazionale col Fondo monetario e di averne limitato i pagamenti, accogliendo in parte la consegna delle Madres (“no al pago de la deuda externa”) che volevano che i soldi di indebitamenti risalenti alla dittatura e al delirio neoliberista di Menem venissero utilizzati per finanziare progetti sociali e non banche nordamericane. Sul fronte degli affari esteri, si è impegnato nei progetti di integrazione latinoamericana, spostando il peronismo verso il socialismo, verso l’idea bolivariana della Patria grande e allineandosi con le presidenze di Lula, Chávez, Morales, Bachelet e Tabaré Vasquez. Non a caso la morte lo ha sorpreso mentre era segretario generale dell’Unasur, l’Unione delle nazioni sudamericane, istituzione per conto della quale aveva negoziato la crisi tra Venezuela e Colombia e il golpe contro il presidente dell’Ecuador Correa.
Al momento di ricandidarsi, ha fatto finta di gettare la spugna passando il testimone alla moglie Cristina Kirchner, con una mossa che compensava simbolicamente il gran rifiuto di Evita di assumere la presidenza. Probabilmente “il pinguino” – così era soprannominato N.K a causa delle origini santacruzegne – pensava di ricandidarsi alla presidenza nelle prossime elezioni del 2011, completando un tris di turni presidenziali.
Rispetto a Cristina, la presidenza di Néstor aveva goduto di un periodo di espansione economica e di aperture sociali. Cristina ha camminato in salita. Innanzitutto si è scontrata col fronte dei grandi proprietari terrieri, i capitalisti della carne e della soia che si sono impossessati perfino delle tecniche di lotta dei piqueteros per difendere i propri interessi cavalcando la retorica dell’antiautoritarismo. Erano scesi in strada in realtà a difendere i loro dividendi, intersecando l’antikirchnerismo del peronismo di destra col solito gorillismo oligarchico e antiperonista che tanto sangue ha versato in Argentina. Era il 2008, quando affumicarono Buenos Aires e presero in ostaggio il governo, costretto a fare marcia indietro nei propositi di innalzamento delle imposte su carne e soia.
Il secondo scontro – ma qui i coniugi Kirchner hanno retto – li ha opposti al Clarín, il potente gruppo editoriale che si è alleato con il conservatore La Nación in chiave antikirchneriana. Il Clarín aveva siglato un armistizio con la presidenza di Néstor, ma il coflitto è esploso quando il progetto di riforma dei mezzi di comunicazione voluto da Cristina ha intaccato gli interessi della proprietà del giornale. Praticamente nessuna notizia favorevole al governo passava sui principali giornali di centro e di destra. La situazione è peggiorata quando i gruppi per i diritti umani, appoggiati dal governo, hanno preteso l’esame del DNA dei figli della proprietaria del Clarin, su cui ci sono ipotesi molto verosimili che fossero in realtà hijos, adottati durante la dittatura perché sottratti a genitori assassinati dagli sgherri di Videla. Sarebbe già grave, ma sembra ci sia altro. Sono state messe in evidenza i legami tra la ricchezza e il monopolio editoriale del gruppo Clarín e la dittatura di Videla e soci: secondo alcune indagini, fu infatti in quegli infausti anni che Lidia Papaleo, proprietaria di Papel Prensa, il principale produttore di carta argentina, sarebbe stata costretta a cedere al Clarín la sua impresa in seguito a minacce esplicite che culminarono, dopo l’atto di cessione, nel sequestro e nella tortura. Da quel momento il Clarin avrebbe venduto la carta ai suoi concorrenti a un prezzo maggiore di quello di mercato, occupando una posizione di monopolio che si è estesa negli ultimi anni a Internet e al mondo multimediale e della tv via cavo. La Presidenta ha sfidato il gruppo intaccando questo monopolio e da quel momento è stata descritta come un’arrogante dittatrice nemica delle libertà dei liberissimi monopolisti argentini.
Molti analisti davano in crisi di consenso i Kirchner. Eppure l’Argentina ha patito la crisi economica in maniera meno grave dell’Europa (anche se un conto sono gli indici del Pil, altro è la qualità della vita di chi abita in una villa miseria); il sistema delle pensioni private, volute dall’ultra liberista Menem è stato riformato; sono state approvate delle riforme sociali (matrimonio gay, bonus per i neonati). Certo, l’Argentina di oggi non è un’utopia libertaria. L’aborto è quasi illegale, a parte qualche eccezione. La corruzione dilaga. I poliziotti hanno il grilletto facile. I salari sono bassi e molti sono i sotto-occupati, mentre l’inflazione cresce. Ma la direzione politica non va nel senso delle restrizioni dei diritti sociali, come succede un po’ ovunque nell’emisfero nord del pianeta.
Lo scenario futuro è difficile da indovinare. Di certo l’onda emotiva seguita alla morte di Néstor Kirchner sembra aver ammorbidito anche gli editorialisti della Nación e del Clarín. Ma è solo fumo negli occhi. Certo, migliaia e migliaia di persone hanno pianto la morte di N.K., sfilando nel microcentro e occupando Plaza de Mayo. Ma i ragazzi del censimento che visitavano le case argentine al momento della morte di Kirchner raccontano anche di aver censito nei living portegni tante bottiglie di spumante e risate per la morte di NK. E non erano ribelli antiautoritari, ma classe media antiperonista di destra.
Detto questo, poi non voglio passare per un seguace del fronte peronista dei Kirchner. Ho cercato di dipingere la realtà argentina in maniera veritiera. So che N.K. non è stato immune dai traffici e dagli smaneggi della politica, argentina e non, peronista e non. So benissimo che la speranza dall’Argentina non può arrivare da una dama piena di gioielli, si chiami Eva o Cristina, o da un politico scaltro, più o meno socialista, più o meno populista. Saranno le piazze e ancor più i quartieri autorganizzati, le fabbriche autogestite, a garantire una trasformazione reale e egalitaria nel grande paese latinoamericano. Fabbriche e quartieri che sono già stati protagonisti tra il 2001 e il 2002, nei mesi del “que se vayan todos”, quando l’Argentina non ha avuto di fatto una presidenza e un governo effettivi.
E tuttavia non vedo niente da festeggiare nella morte di N.K. Non è la morte del tiranno. Anzi. Le forze più conservatrici dell’Argentina sono quelle che in questi giorni, lontane dalle piazze, nei quartieri bene di Recoleta o nei ricchi countries, le ville fortificate in periferia, fanno brindare i loro calici di cristallo ancora sporchi del sangue versato negli anni Settanta.
Chiudendo questo articolo, vorrei ricordare N.K. con un aneddoto scherzoso: originario dei territori di Santa Cruz, si racconta che Kirchner abbia fatto la comparsa nel film di Héctor Olivera “Patagonia rebelde”, girato a Rio Gallego nel 1974 e ispirato all’omonimo romanzo di Bayer. Il film costò l’esilio e la persecuzione un po’ a tutti quelli che parteciparono alle riprese, terminate molto rapidamente perché le minacce arrivavano sul set quasi ogni giorno. Quando il film fu montato, venne poi censurato. Solo col ritorno alla democrazia, la pellicola venne riportata nelle sale e durante la presidenza di Néstor Kircher fu addirittura oggetto di una celebrazione istituzionale, se non erro nel Congreso. In quell’occasione Kirchner quasi spezzò una costola allo scrittore Osvaldo Bayer abbracciandolo e poi salutò il regista Olivera, chiedendogli che ne era stato della paga della giornata di lavoro delle comparse. Olivera si era infatti dimenticato di pagare la giornata a quell’anonimo ragazzotto patagonico con l’aria da perdente che nella storia dell’Argentina è stato tutto tranne che una comparsa.
In conclusione, va registrato un fatto di cronaca che conferma una tradizione della storia del peronismo. Come sa bene chi è interessato alla storia del grande paese australe, si chiamano “giornate peroniste” le giornate vittoriose per la corrente peronista, e sono sempre giornate di sole. Nelle giornate tragiche del peronismo di solito piove. Pioveva a Buenos Aires anche quando la bara rossa di N.K. è stata accompagnata da una moltitudine di ombrelli fino a un volo diretto al lontano sud di Rio Gallego.