Sarà che mi aspettavo qualcosa di diverso, da a questa scrittrice ungherese riparata in Svizzera nel 1956. Qualcosa comunque figlio del mondo tetro del socialismo reale imposto con i carri armati sovietici. Non avevo considerato che i conti si possono regolare anche con lo humour più nero e che il gioco delle parti, degli equivoci, delle bugie può rappresentare il peggior contrappasso per ogni pretesa di verità assoluta.
E dunque la trilogia comincia in un remoto paese dell'est devastato dalla guerra. Non si dice, però più o meno è proprio l'Ungheria occupata dai nazisti. Immagino che non siano mancati i romanzi del realismo socialista, a raccontare quelle vicende. Però in scena entrano subito due gemelli: e con i gemelli, si sa, le cose inevitabilmente si complicano.
Perché ci vuole poco: e già nei giorni delle bombe e della fame, tutto si sovrappone, si separa, si sdoppia, si confonde. I destini di vita ora si intrecciano e ora si allontanano. Talvolta scompaiono, come fiumi carsici forse destinati a riemergere.
Ma in ogni caso: dov'è la verità? Trilogia della città di K. avrebbe potuto chiamarsi anche Trilogia della menzogna. E da subito Agota Kristof avrebbe giocato a carte scoperte. Perché in effetti questo più che un libro mi sembra un incredibile sala degli specchi, di quelle da luna park, in una sarabanda di rimandi e deformazioni. Menzogna della vita e menzogna come grande forza ispiratrice d'arte. Vai a sapere se alla fine si potrà trovare il capo giusto e sciogliere il groviglio.
"Non sono una bugiarda nella vita. Non so perché scrivo quelle cose", pare abbia detto un giorno Agota Kristoff, rispondendo alla domanda di un suo intervistatore. Leggendo la Trilogia viene il sospetto che proprio la menzogna sia la forma più sofisticata della verità.