L’arte e la modernità: 11 domande a Carlotta Petracci

Creato il 11 marzo 2014 da Lundici @lundici_it

Carlotta Petracci, cesenate di nascita e torinese d’adozione, ha poco più di trent’anni e una vita all’insegna della creatività. Direttore creativo dello Studio White di Torino ci racconta i suoi progetti in diversi ambiti che spaziano dalla moda all’architettura, dal cinema alle nuove tecnologie. Una donna con la D maiuscola, capace di far sentire la propria voce e la propria presenza in ambiti che nella maggior parte dei casi sono ancora prerogativa maschile. Undici domande per immergerci nel suo mondo.
Partiamo dallo Studio White che ha fondato a Torino. Qual è la sua storia? E perché ha deciso di chiamarlo in questo modo? Di cosa vi occupate nello specifico?
White è una piccola boutique creativa indipendente, che sviluppa progetti di comunicazione che si fondano sullo storytelling e sulla produzione di contenuti. Dai magazines ai documentari, dagli spot ai social media, dalla curatela alla sperimentazione nelle arti visive, quello che faccio e che facciamo ogni giorno è raccontare storie: di persone o anche solo per immagini. Il nome dello studio poi è programmatico, perchè tiene insieme due grandi anime: il narrare con le parole e il narrare per immagini. In diverse occasioni l’ho definito così: “White come bianco, come la luce che imprime la pellicola, come la pagina di un libro ancora da scrivere.”

Il progresso tecnologico ha portato grandi cambiamenti nelle strategie di marketing legate alla comunicazione. Data l’importanza di quest’ultima all’interno del vostro studio, che si basa su  canali non convenzionali ma sui nuovi media, in che modo i brand si approcciano ai nuovi mezzi di comunicazione, ad esempio tramite i social network?

” Jesus is my homegirl” è esposta nella collezione permanente del Museo Internazionale di Arti Applicate Oggi di Torino.

Negli ultimi anni c’è stato sicuramente un incremento d’interesse, da parte dei brand, nella crescita della propria reputazione online. Si è cominciato col blogging, che però si fondava ancora su forma di comunicazione dall’alto verso il basso, così ci si è spostati immediatamente sui social: più democratici, dialogici, virali e dai risultati facilmente quantificabili. A parte il fenomeno di youtube di più lunga data, la vera e propria rivoluzione è avvenuta con facebook e twitter, due canali molto diversi, il primo più orientato all’intrattenimento mentre il secondo all’informazione e all’opinione, ma ugualmente efficaci nel generare consenso e dissenso. Certamente per i brand le opportunità sono tante, ma non bisogna neanche pensare che la reputazione online sia facile da costruire solo perchè si utilizzano canali molto più immediati di quelli precedenti. Sui social a contare sono tre fattori chiave: il contenuto, il senso di comunità e l’onestà. Se ci si perde uno di questi passaggi, la guerra è aperta! Non smetto mai di dirlo ai marchi che seguo. Non siate amichevoli come una pubblicità, siate sinceri come un amico.

 L’arte in tutte le sue manifestazioni è una componente onnipresente nella sua vita. Nel 2011 ha collaborato con Enzo Biffi Gentile per una delle edizioni di Arts&Craft. Considera la moda una forma d’arte pari alle altre più accademiche e riconosciute ufficialmente sotto la categoria di arte pura come l’architettura?

Nel 2011 ho avuto la bella opportunità di curare una delle edizioni del consueto Arts&Craft Supermaket del Museo di Arti Applicate Oggi di Torino. Sotto la direzione artistica di Enzo Biffi Gentili (Direttore del Museo) ci siamo inventati la Boutique Antagonista, un progetto tutto all’insegna dell’autogestione, che riuniva, in una mostra-mercato, i lavori di giovani artisti torinesi provenienti dai più svariati ambiti, dal design alla moda. Il claim “per tutti contro tutto” esprimeva bene gli obiettivi del progetto: reagire alla penuria culturale che la crisi e i tagli alla cultura avevano determinato. Tra i protagonisti senza dubbio non posso dimenticare di citare Damier Johnson e la sfilata del suo marchio: Rebel Yuths, che aveva avuto luogo all’interno dell’oratorio del complesso monumentale di San Filippo Neri, dove  ha tutt’ora sede il museo. Il lavoro di Damier, stilista afroitaliano, nigeriano di origine e torinese d’adozione, rappresenta per me un compendio perfetto di arte e moda. I suoi vestiti, veri e propri artefatti tessili, caratterizzati dall’interferenza tra decorazioni tradizionali, grafiche street e sovente loghi di multinazionali occidentali, e dalla commistione e assemblaggio di tanti oggetti eterogenei (bamboline, pistole giocattolo, elmetti), con il loro eccesso estetico ben traducono la mia idea e visione della moda, come manifestazione dell’identità culturale contemporanea fluttuante e deterritorializzata.

Cosa pensa della figura dei “ fashion blogger”?

I fashion blogger sono le nuove pop star dell’era digitale. Servono fondamentalmente a vendere, facendo leva però sul desiderio di sovra esposizione mediatica dei “ragazzi della strada”. Chiunque apparentemente può diventare un fashion blogger, perchè la loro vita, i loro interessi, le loro passioni non sono poi così dissimili dalle nostre. Non hanno nulla di straordinario e distante. Per cui è molto facile empatizzare, seguirli, provare a essere come loro. E non serve demonizzarli, come spesso fanno i giornalisti. Perchè i ragazzi che li seguono, sono assolutamente consapevoli che non si tratta di mannequin da vetrina telematica, anzi spesso sono loro amici, a cui danno e da cui ricevono consigli.

Per quanto riguarda me devo ammettere, che seguo molto e faccio molto mio ciò che accade in rete. Tendenzialmente seguo persone giovanissime, non necessariamente fashion blogger, perchè mi piace prendere ispirazione da ciò che ancora non è stato trovato. Nonostante ciò so benissimo che, sul web, ogni scoperta diventa presto effimera…

Durante il Festival dell’Architettura in città che si è svolto a Torino nel 2013 ha realizzato la video installazione “ Ruinenwerk”  in collaborazione con dei musicisti che hanno disegnato le sonorità dello slide show. Ho trovato molto affascinante l’unione tra la musica elettronica sperimentale e l’architettura. Siete riusciti a creare, attraverso l’incontro tra due mondi così apparentemente diversi, una performance molto suggestiva. Com’è nata l’idea? E perché proprio la musica elettronica sperimentale?

In occasione del Festival di Architettura in Città, Enzo Biffi Gentili (Direttore del Museo delle Arti Applicate Oggi di Torino, MIAAO) curava la mostra principale: “Le Rovine Esposte”, quella che proponendo il tema dell’esplorazione urbana, dava il taglio a tutta la manifestazione. In occasione di quella mostra sono stata chiamata per realizzare la video installazione RUINENWERK, che doveva affiancare il lavoro fotografico dell’esploratore urbano francesce Christophe Dessaigne su una serie di location scelte dal curatore e che rappresentavano per Torino dei veri e propri monumenti di archeologia industriale. RUINENWERK non doveva però essere semplicemente una video installazione, bensì un’opera totale, quindi anche musicale. Da qui è nata la collaborazione con Musica Novanta, che ha selezionato tre musicisti: Davide Tomat, Paolo Spaccamonti e Dario Bruna per sonorizzare (i primi due) la mia video installazione e poi risonorizzare live (tutti e tre) la video performance di un’ora nata dalla video installazione stessa. RUINENWERK è decisamente stato uno degli eventi più entusiasmanti del Festival, non solo perchè mostrava attraverso il linguaggio video una Torino nascosta e ‘inquieta’ (siti ‘infestati’ e ‘inquieti’ li aveva definiti Enzo Biffi Gentili nel suo comunicato stampa) ma anche perchè rifletteva sulla monumentalità della rovina architettonica a partire da un bellissimo connubio di immagini e musica.

Rent, il progetto editoriale di Carlotta Petracci

Durante i suoi momenti di creatività la musica è importante? Se si, ha un genere in particolare? 

Per molti anni la mia immaginazione creativa è stata sorda. La musica faceva parte della mia vita emotiva, ma raramente la ricollegavo a momenti di fervore creativo. Tutto è cambiato però quando ho cominciato a girare video e ho scoperto il meraviglioso mondo del montaggio: della combinazione tra immagine e suono, e dell’attribuzione di senso attraverso il suono e la musica. E’ stato così che ho cominciato ad essere onnivora anche musicalmente.

Essendo molto orientata alla sperimentazione visiva, cerco di fare lo stesso anche con la musica, sia nelle mie collaborazioni che nei miei ascolti. Certamente l’elettronica è la base, ma poi ci sono molte derive da cui mi piace lasciarmi stupire. Il bello della musica è comunque la sua estrema fluidità. In ambito musicale non ci sono divieti, né assoluti. La musica mi ha liberato e mi ha insegnato molto, anche per la composizione visiva.

A livello internazionale esiste la figura dell’Archi Star che crea un legame stretto tra la sua immagine e la comunicazione attraverso i media. In Italia è un fenomeno non conosciuto. Secondo lei qual è la causa? E quali crede che siano le migliori strategie di comunicazione per far si che si conosca il fenomeno anche nel nostro paese?

Non penso che in Italia il fenomeno dell’Archi Star non sia conosciuto, penso piuttosto che abbia una natura globale e quindi comprenda una ristretta elite, la cui provenienza geografica ha un’importanza relativa. E’ vero però che in Italia c’è una certa diffidenza verso i grandi nomi dell’architettura e le loro opere, ma non credo sia un problema di comunicazione bensì di territorialità e forse anche di politica. Le Archi Star sono un fenomeno extra territoriale e il nostro paese è costituito da una miriade di piccole realtà dove contano le relazioni di vicinato, le sinergie a corto raggio, le economie locali, penso sia piuttosto difficile scardinare queste dinamiche per andare incontro ad una modernità molto più ingombrante che ha come presupposto non dialogare con il territorio.

Da parte mia ho riflettuto su questo e altri temi riguardanti l’architettura in uno dei miei primi progetti editoriali: Rent. Si trattava di un magazine per un franchising immobiliare che aveva come finalità fare luce sul complesso mondo dell’abitare e sui suoi nuovi scenari. Interessante forse, da un punto di vista di comunicazione, è che Rent era un custom magazine, quindi esprimeva il desiderio di un marchio di fare cultura su argomenti e tematiche che spesso non raggiungono i più, rimanendo appannaggio di nicchie culturali molto specifiche.

Sono molti i giovani in Italia che studiano arte e vorrebbero in futuro guadagnarsi da vivere grazie alla loro creatività. Pensa che sia possibile nel nostro paese o è semplicemente un’utopia?

I sogni non sono mai utopia ma vivere di creatività non è per tutti. Sono tanti quelli che non ce la fanno e per un solo motivo: perchè pensano che essere creativi richieda molto meno impegno che lavorare. Ma una cosa va specificata: per guadagnarsi da vivere non si può continuare a trattare la creatività come un hobby. La creatività è un’industria e non va scambiata con l’arte che invece è un dono e ha dinamiche di produzione tutte sue, che non seguono le logiche di mercato (questo è vero solo in parte, perchè poi c’è anche un mercato dell’arte ma non è lo stesso della creatività). Penso che molto spesso le persone giovani (a parte qualche rara eccezione) facciano confusione tra i due ambiti, pensando di essere artisti quando non riescono neanche a essere efficacemente creativi al di fuori delle dinamiche di nicchia dell’underground.

Lei è fondatore e direttore editoriale del canale di lifestyle W2. Al suo interno date ampio spazio alle controculture. È come se fossimo tornati indietro negli anni ’60, quando a lanciare le mode erano le persone comuni attraverso la teoria del bubble-up. Ad esempio al giorno d’oggi possiamo nominare lo street style, un fenomeno molto conosciuto e seguito in internet. Secondo lei è veramente così?

Quando ho fondato W2 avevo una gran voglia di raccontare le mie storie, quelle di cui venivo a conoscenza per passa parola o quelle di talenti ancora non completamente scoperti. W2 doveva essere un canale di documentari di lifestyle, che subito però prese una piega più orientata all’approfondimento. Inizialmente usai il termine controculture, per contrapporre le mie storie a tutte quelle mainstream o che uscivano su canali con una esposizione mediatica e un’audience decisamente superiore alla mia. Lo usai un po’ impropriamente, perchè in realtà oggi siamo in un’era in cui le contrapposizioni tra alto e basso non sono più così nette, è tutto molto più fluido e soggetto a contaminazione; però lo scelsi perchè le dinamiche con cui volevo far viralizzare i miei contenuti erano quelle delle comunità di stile e di pensiero. E’ così che ho scelto i primi argomenti: lo skate, le bici, le riviste indipendenti e il cinema di fantascienza. E i numeri mi hanno dato ragione: migliaia sono state le visualizzazioni a partire dalle condivisioni di blog e persone facenti parte di queste comunità di interesse. L’obiettivo di W2 però non era tanto lanciare le mode, ma trovare delle belle storie, delle storie comuni ma tutte piccole imprese: appena cominciate, finite o in transizione.

L’ultimo suo progetto è stato il video “Goodbye Hollywood”. Com’è nata l’idea? Le piacciono i film di fantascienza? Ha un film\regista in particolare che preferisce?

Nel 2008 ho avuto l’occasione di conoscere Fabio&Fabio (Fabio Guaglione e Fabio Resinaro), due giovani registi italiani di fantascienza. Negli anni siamo diventati amici e dopo la loro corsa a Hollywood, finita (per ora) con una battuta d’arresto e con un salto in avanti, che li ha portati a produrre il loro primo lungometraggio, ho deciso di raccontare la loro storia. Per due motivi: perchè mi piace il cinema di genere e in particolare la fantascienza e i suoi universi utopici e distopici; perchè la loro storia era perfetta, per generare identificazione, e per raccontare l’ostinazione che sta dietro a un sogno.

Per quanto riguarda film e registi che amo, beh la mia risposta è sempre la stessa: sono un’eclettica e rubo un po’ da tutti, mi riesce impossibile scegliere qualcuno! Se invece mi si chiede qual’è il film di fantascienza o anche a cavallo col genere fantascientifico o semplicemente più sperimentale che hai visto e da cui sei rimasta affascinata nell’ultimo periodo, la mia risposta è univoca: La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli. Spettacolare.

Avrei un’ultima curiosità. Ho letto che in passato ha realizzato dei Tableaux Vivants.  Molte donne nell’800 vedevano nella loro realizzazione una via di fuga da una società che le teneva ai margini. Che cosa hanno rappresentato per lei? 

Le mie sperimentazione artistiche in una fase iniziale sono cominciate con autoritratti e tableaux vivant, di cui un esempio è “Jesus is my homegirl” una serie di fotografie digitali dove una me stessa moltiplicata interpretava i momenti chiave della vita di Gesù. Una di queste fotografie, l’ “Annunciazione” è esposta nella collezione permanente del MIAAO, Museo di Arti Applicate Oggi di Torino. Autoritratti e Tableaux hanno sì una lunga tradizione e nell’arte contemporanea sono stati sicuramente i lavori di Luigi Ontani ad avermi folgorato e ispirato, prima di tutto perchè attraverso queste forme di rappresentazione si ha la possibilità di riflettere sul significato della propria identità come maschera. Non parlerei quindi di una fuga, quanto piuttosto di una radicale messa in scena espressiva del mio sé. Proprio il 2 marzo 2014 Enzo Biffi Gentili, direttore del MIAAO e anche curatore del nuovo progetto il Cuneo Gotico, ha postato una delle mie vecchie foto (Luce e Arte, anno 2008) comunicando la mia partecipazione a questo progetto che ha come obiettivo l’esplorazione del tema del neogotico nelle arti. Direi una bella referenza!

La foto postata sulla pagina Facebook del progetto Cuneo Gotico

Il video di Ruinenwerk

Ruinenwerk recap #1


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