Federica Melis. “Era socialista, femminista, critica cinematografica, ma soprattutto una persona diretta ed esplicita. Imparò l’inglese andando a teatro. Vestiva con giacche e pantaloni da uomo e portava sempre un largo cappello. Scattava sempre fotografie che però non mostrava mai a nessuno”. Così è descritta Vivian Maier dai tre ragazzi di cui si prese cura per anni come baby sitter. Perché Vivian Maier, oggi riconosciuta dalla critica quale straordinaria street photographer, era semplicemente una bambinaia. Ogni riconoscimento artistico è giunto postumo e, solo di recente, la sua sbalorditiva opera privata è stata consegnata alla pubblica notorietà. Poco si conosce della sua vita, le esigue informazioni conducono a New York, dove nacque il 1 febbraio del 1926 da padre austriaco e madre francese, e poi in Francia dove trascorse parte dell’infanzia e il definitivo ritorno negli Stati Uniti, nel 1951, prima a New York e poi a Chicago dove lavorò come nanny presso alcune ricche famiglie borghesi. Ignoto è il suo percorso di studi e sconosciuta, fino alla sua morte nel 2009, era anche la sua vastissima produzione fotografica (circa 100.000 scatti custoditi in oltre 200 scatole di cartone).
Vivian Maier era una fotografa tanto talentuosa quanto inconsapevole della sua arte e, probabilmente, mai avrebbe immaginato di essere protagonista di mostre internazionali e di avere un seguito di facoltosi collezionisti ammiratori dei suoi lavori.
Schiva e solitaria, come ricordano gli impiegati del Chicago Central Camera (negozio di fotografia presso il quale spesso si recava), trascorreva il tempo libero passeggiando per le strade di Chicago con la sola compagnia della sua Rolleiflex 6×6, con cui immortalava, annotandole come in un diario, le forme del mondo che catturavano la sua attenzione e sollecitavano la sua notevole sensibilità artistica. Nasce così, fra le strade di città, un lavoro che racconta la vita americana del dopoguerra, una realtà registrata con l’intensità e la profondità proprie di chi è visceralmente calato nello straordinario della vita quotidiana. E non è un caso che fra i suoi soggetti preferiti vi fossero i bambini: non accidentali intromissioni dell’ufficiale mestiere di bambinaia in quello ufficioso di fotografa ma rappresentazioni del fascino esclusivo che solo la speciale fase della vita che è l’infanzia riesce a promanare; perché l’immagine dell’infanzia, come ricorda la stessa Maier in una lettera ai suoi bambini, è l’unica apparentemente immutabile.
“Ho fotografato i momenti della vostra eternità perché non andassero perduti”.
Nel diario per immagini di Vivian Maier è impressa, con sorprendente potenza poetica, una porzione della realtà soggetta a rimozione, quel quotidiano che inavvertitamente risiede nell’automatismo del gesto irrilevante ma attraverso cui scorre la vita stessa nella sua essenzialità. Oltre centomila scatti che, pur innestandosi nella caotica sfera della realtà, riescono con sublime poesia a dispiegarla nell’ordine del reale, correggendo quei fuori norma sintattici che distinguono il racconto dal frettoloso appunto. Scopriamo così la storia di una donna che, con l’obbiettivo puntato al paesaggio urbano, attraverso il fuori ci racconta il dentro, fino a giungere alla più intima ricerca del sé con autoritratti mai irriverenti né autocelebrativi ma sempre riflessivi. Autoritratti che mettono a fuoco le domande lasciando le soluzioni fuori inquadratura, così saturi d’interrogativi da produrre consistenti precipitati d’incertezza. Immagini che sorprendono l’altro da sé nel suo timido palesarsi sulla superficie riflettente di uno specchio o che lo imprigionano in sagome d’ombra rivelandone il carattere d’incognita e che riverberano l’incessante chi sono di palazzeschiana memoria: “Io metto una lente davanti al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia”.