Ecco allora la particolarità dei ritratti rembrandtiani. La comprensione della persona non si attua in lui nella rimozione della sequenza temporale ma nell'immersione nella vita profonda, senza il riserbo e l'enigmaticità del ritratto classico. Non a caso i ritratti di Rembrandt più intensi sono quelli di vecchi, perché in loro la storia, il tempo si è accumulato, c'è il massimo di vita possibile sintetizzato; i ritratti di giovani, come Tito, invece, sono una sorta di inversione perché ci proiettano nella loro vita futura. Centrale a questo proposito è la questione dell'espressione della spiritualità tramite la fisicità:“Infatti questa rappresentazione è una rappresentazione sensibile-spaziale, un mero ordinamento di colori che ricevono un senso per noi solo perché esprimono un elemento spirituale, universale o individualizzato. Ma, per conoscerlo, non abbiamo altro materiale e altro appiglio che non sia la visibilità corporea data. Tuttavia il circolo non appare insolubile perché si basa soltanto sulla premessa, per nulla indiscutibile che l'elemento spirituale di un fenomeno umano ci divenga accessibile in modo completamente separato e diverso dall'elemento corporeo.” (G. Simmel Rembrandt, in Il volto e il ritratto, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 147-148.Ecco perché il movimento, il divenire è tanto importante, perché è una vita intera che permea il corporeo e spirituale.“...proprio l'arte struttura il fenomeno umano in modo tale che il dualismo dell'apprendere fisico e spirituale, della percezione e della spiegazione, in cui spesso l'insufficiente rapporto dell'osservatore con l'osservato dilata e scompone l'osservazione, svanisce. Il circolo che minacciava la comprensione del ritratto: la necessità di spiegare il fenomeno corporeo dell'uomo a partire dalla sua realtà spirituale, ma la possibilità di giungere a questa unicamente a partire da quello che solo ci si offre immediatamente, non è altro che l'espressione del fatto che in questo caso esiste un'unità dell'essere e una corrispondente unità del percepire.” (Ibidem, pp 149-150).
Ecco allora la particolarità dei ritratti rembrandtiani. La comprensione della persona non si attua in lui nella rimozione della sequenza temporale ma nell'immersione nella vita profonda, senza il riserbo e l'enigmaticità del ritratto classico. Non a caso i ritratti di Rembrandt più intensi sono quelli di vecchi, perché in loro la storia, il tempo si è accumulato, c'è il massimo di vita possibile sintetizzato; i ritratti di giovani, come Tito, invece, sono una sorta di inversione perché ci proiettano nella loro vita futura. Centrale a questo proposito è la questione dell'espressione della spiritualità tramite la fisicità:“Infatti questa rappresentazione è una rappresentazione sensibile-spaziale, un mero ordinamento di colori che ricevono un senso per noi solo perché esprimono un elemento spirituale, universale o individualizzato. Ma, per conoscerlo, non abbiamo altro materiale e altro appiglio che non sia la visibilità corporea data. Tuttavia il circolo non appare insolubile perché si basa soltanto sulla premessa, per nulla indiscutibile che l'elemento spirituale di un fenomeno umano ci divenga accessibile in modo completamente separato e diverso dall'elemento corporeo.” (G. Simmel Rembrandt, in Il volto e il ritratto, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 147-148.Ecco perché il movimento, il divenire è tanto importante, perché è una vita intera che permea il corporeo e spirituale.“...proprio l'arte struttura il fenomeno umano in modo tale che il dualismo dell'apprendere fisico e spirituale, della percezione e della spiegazione, in cui spesso l'insufficiente rapporto dell'osservatore con l'osservato dilata e scompone l'osservazione, svanisce. Il circolo che minacciava la comprensione del ritratto: la necessità di spiegare il fenomeno corporeo dell'uomo a partire dalla sua realtà spirituale, ma la possibilità di giungere a questa unicamente a partire da quello che solo ci si offre immediatamente, non è altro che l'espressione del fatto che in questo caso esiste un'unità dell'essere e una corrispondente unità del percepire.” (Ibidem, pp 149-150).
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