Tecnica dopo tecnica mi lascio assorbire dal piacere della pratica e inizio a concentrarmi su alcuni dettagli del taisabaki e altri particolari specifici del movimento che stiamo facendo. Ad un certo punto mentre sto facendo Uke, cambio un piccolo movimento del piede che mi fa fermare più o meno a metà esecuzione (era se la memoria non mi inganna un sotokaiten da ryotedori): a quel punto sento che le braccia di Fritz sono morbide e percepisco una sensazione simile a quella di una “cascata che si spegne” e ritorna ad essere acqua ferma, mi giro con lo sguardo verso di lui e lo vedo sorridente e tranquillo. Pacato come sempre mi dice: “Se non attacchi non ho bisogno di fare aikido”. Semplice, apparentemente banale, ma quella frase mi ha folgorato e continua a folgorarmi ogni volta che la riascolto nella mia mente.
Dopo 24 anni di aikido, mi ritrovai in quel momento ad essere veramente un principiante che inizia lo studio di una nuova, entusiasmante disciplina. Ho riflettuto parecchio su quel momento e ho trovato numerose affinità tra il concetto così semplicemente e chiaramente espresso da Fritz e i grandi capisaldi della mia filosofia di vita e di lavoro in ambito terapeutico. Dove finisce l’ascolto dell’altro? Solitamente nel proprio bisogno di intervenire. Ascoltiamo una persona che ci racconta un suo problema o una sua visione dei fatti della vita e quasi immediatamente iniziamo a formulare mentalmente uno schema reattivo sotto forma di risposta. Questo nell’aikido equivale a decidere come fare una tecnica prima ancora di aver letto l’attacco di uke, di averne percepito intensità, direzione e velocità.
Perché succede questo? Credo prevalentemente per paura. Quando abbiamo a che fare con qualcuno che ci racconta la sua sofferenza, abbiamo paura di ascoltare, paura di non essere in grado di reggere il contatto con quel dolore, paura di non essere in grado di aiutare, e iniziamo a reagire cercando forsennatamente una soluzione, per tenere la cosa lontana dal nostro cuore, dalla nostra anima morbida. Abbiamo “bisogno” di intervenire, di impacchettare e chiudere la cosa in modo da potercela dimenticare prima possibile per evitare che ci ferisca. [...]
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