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Le classifiche mondiali non consolano; nessuna delle Università italiane, stando all’ultima proiezione stilata dal «Times» nel 2012, si piazza entro il centesimo posto, compresa la vetusta mater bolognese o «La Sapienza» capitolina che già solo per il nome dovrebbe meritarsi il primato, seppure dopo i recenti scandali di assunzioni parentali facili che hanno coinvolto il Rettore.
La notizia in fondo può scoraggiare ma nemmeno così tanto se si considerano i parametri con cui queste statistiche vengono effettuate: l’offerta formativa, l’innovazione della ricerca, l’influenza delle pubblicazioni, la percentuale dei laureati e degli abbandoni, dell’età di conseguimento del titolo e dei fuori corso, persino la qualità dei dormitori e delle mense. Un po’ troppo fumo, forse. Basterebbe confrontare i nostri programmi accademici con quelli di molte altre Università estere, persino tra le più prestigiose, per comprendere che l’Italia non merita affatto i bassi posti in classifica e che i nostri studenti escono tutt’altro che sconfitti nel confronto coi colleghi stranieri. Conosciamo meno lingue, bene forse nessuna, è vero, siamo dotati di poco spirito pratico infarinati, come siamo, di dottrine e concetti teorici, ma siamo indubbiamente assai intelligenti e dotti, questo almeno ce lo si deve riconoscere.
Sarebbe un discorso troppo lungo, trito e farraginoso, mettersi qui a disquisire sulle Università italiane in generale, sui loro meriti e sugli altrettanti demeriti, ogni caso poi sarebbe un caso a sé. Mi preme piuttosto porre sul tavolo un’altra questione su cui, da quando ho varcato il confine interno della malebolgia degli studiosi sapienti, forse piuttosto incoscienti, votati alla ricerca (a quest’unica categoria, più adeguatamente classificabile come “schiavi”, appartengono indistintamente dottorandi, assegnisti e ricercatori non confermati), da quando -dicevo- ho iniziato a lavorare per e dentro l’Università, ho sentito poco discutere. E mi preme pure in virtù di una mia recente esperienza accademica non siciliana (parlare sempre dei meccanismi “mafiosi” della Sicilia e del sud in generale è troppo facile, ormai quasi scontato e a dir poco obsoleto). Spostandosi più al centro-nord, si scopre che le cose non cambiano poi così tanto rispetto al sud, anzi addirittura peggiorano.
Se già è nota e ampiamente discussa la questione Dottorati di ricerca (vale la pena donare tre anni della propria vita a una causa già persa in partenza, a un miraggio di lavoro vero e duraturo che l’Università, per la quasi totalità delle volte, non offrirà mai) e l’assurda inclusione dei non borsisti (scoraggerei chiunque ad accettare un Dottorato senza borsa), poco si parla sulla altrettanto rovente questione Assegni di ricerca e sulle procedure concorsuali di selezione.
Per chi non lo sapesse funziona così: parte dei fondi che ogni Università possiede vengono destinati alla ricerca accademica e ciascun Ateneo, con una regolare cadenza più o meno annuale, bandisce pubblici concorsi per conferire al fortunato singolo vincitore un assegno della durata minima di un anno estendibile anche fino a quattro anni e di importo variabile (si parte in media dai 19 mila euro netti). Ovviamente ogni dipartimento, in base ai fondi che ottiene o che conserva in cassa, può permettersi di bandire anche più bandi di assegno per anno (ad esempio, il dipartimento di Italianistica dell’Università X può bandire contemporaneamente un assegno in Letteratura italiana medievale e un altro in contemporanea).
Bene, tutto normale fin qui; passiamo però alle questioni più calde, come si svolgono, cioè, le procedure di selezione. Quelle già minate, e spesso sospette, di ammissione al Dottorato (a cui miracolosamente sono riuscito a cavarmela) sono più o meno legalizzate (la legge prescinde sempre un reato però!) da un membro esterno in commissione, da una prova scritta (il foglio di carta può essere comunque una prova significativa per un eventuale ricorso) e un colloquio sul progetto di ricerca che ciascun candidato presenta. Per gli Assegni di ricerca invece, giusta continuazione di un Dottorato concluso, non funziona allo stesso modo. Il bando prevede un concorso pubblico per titoli e colloquio: per titoli valutabili si intendono le pubblicazioni scientifiche, mentre il colloquio è atto a valutare la competenza del candidato in merito alla ricerca su cui viene attribuito l’assegno e il suo eventuale progetto di ricerca.
Tutto logico in apparenza. Restano da capire però (impresa assai ardua, a dire il vero) le effettive modalità con cui si svolgono questi concorsi, variabili poi da un Ateneo ad un altro. È tutto così onesto come sembra? No, rispondo convinto della mia lapidaria asserzione. Accennavo prima a una mia recentissima esperienza presso una prestigiosa Università del centro Italia di cui mi sembra corretto, almeno per ora, mantenere l’anonimato. Eccovi, in sintesi, il resoconto di viaggio. Innanzi tutto il colloquio si è svolto nell’assoluta segretezza delle porte chiuse; bella contraddizione se si parla di concorso pubblico quando un pubblico reale in carne ed ossa non c’è! La commissione dovrebbe essere costituita (così non è accaduto), se non con un membro esterno come per il Dottorato, quanto meno da non tutti i titolari interni dei settori scientifico-disciplinari dell’assegno. Non è strano, a pensarci bene, di modo da evitare eventuali favoritismi verso i propri allievi o verso altri dell’entourage locale. La commissione dovrebbe pure essere resa pubblica a tutti i candidati prima del colloquio; ebbene, io unico esterno partecipante al concorso, che non conoscevo personalmente nessuno se non di fama, ho scoperto i commissari solo in loco, al momento stesso del colloquio. La burocrazia vorrebbe inoltre che la valutazione dei titoli di ciascun candidato venisse resa pubblica prima o al momento stesso del colloquio. Se è dunque vero che la commissione deve stabilire un punteggio, indispensabile per stilare una graduatoria di merito, avrei voluto conoscere questo punteggio e sapere la mia posizione rispetto agli altri candidati rivali. Nulla di tutto ciò è stato fatto! L’unica informazione che ho appreso dal sito dell’Università è stata il nome del vincitore (non certo io, non avevo dubbi d’altronde!) senza classifiche, senza punteggi, senza nessun’altra informazione. Ipotizziamo il caso mi fossi classificato secondo, avrei avuto la speranza di subentrare al primo dopo una sua eventuale rinuncia oppure, se avessi assistito al colloquio e avessi conosciuto le valutazioni, avrei potuto, qualora le avessi ritenute ingiuste, appellarmi a un ricorso. Curiosando on line, ho cercato inoltre alcune informazioni sul candidato vincitore dell’Assegno. Be’, ancora una volta niente che non potessi aspettarmi; persona qualificata, non c’è dubbio, guarda caso formatosi nell’Università locale ed esattamente specializzato negli ambiti disciplinari dell’Assegno. Insomma, come se qualcuno gli avesse cucito addosso un vestito, quasi impossibile batterlo!
Essendo un tipo che cerca di capire anche le ragioni più perverse (o addirittura quelle che neppure ci sono) ho provato a immaginarmi nei panni dello studente allievo del professore titolare dell’Assegno. Indubbiamente avrei gradito che il mio professore avesse dato la precedenza a me, creando un progetto inerente alla mia ricerca. È umano, penso! Ciò che però mi urta, trovandomi nei panni dello sconfitto, è il meccanismo con cui questo, come la stragrande maggioranza dei concorsi accademici, si svolge. Se è vero, e in un certo senso pure comprensibile, che l’Assegno di ricerca è prima di tutto del professore e che il professore ha carta bianca per fare in modo di attribuirlo a chi vuole lui, perché fingere un concorso pubblico che di pubblico e legale non ha nulla? Perché illudere candidati esterni? Piuttosto si lasci al Professore titolare dell’Assegno la sacrosanta libertà di conferirlo al suo allievo migliore, senza prese in giro o formali fasulle apparenze. Facendo così si garantirebbe una chiarezza (e una onestà) meglio di una apparecchiata legalità concorsuale che nei fatti non c’è mai.
Formatomi anche all’estero, ho una chiara idea delle divergenze sistematiche e ontologiche tra i sistemi universitari. Pensate che in Belgio, ad esempio, uno studente deve dichiarare la sua eventuale parentela col professore di modo che una commissione straordinaria si costituisca per il suo esame; e a poco valgono le raccomandazioni, credetemi. È il merito il più importante criterio valutativo, indispensabile per fare carriera e pure velocemente.
Riflettendo su tutto questo mi chiedo: forse le Università italiane meritano davvero il posto che occupano? Probabile, sebbene ingiusto nell’ottica di chi, come me, in esse si è formato bene e, consapevole del fatto suo, sa di valere in un modo o in un altro.
Spero tuttavia che nei settori di Ricerca medico-scientifica le procedure selettive siano ben diverse da quelle che ho vissuto personalmente e che conosco per bocca di altri. Si sa, il mondo umanistico-letterario è poco classificabile e chiaramente definibile!
Mi auguro però che presto arrivi una ondata di rinnovamento e di onestà intellettuale e che, laddove tardasse a venire, siamo noi giovani, ricercatori, dottorandi, studenti in generale (tanto titolati ma così insignificanti dinanzi allo strapotere e agli abusi delle autorità accademiche), siamo tutti noi a ribellarci, a pretendere sistemi migliori, più giusti ed equi, a rivendicare legalità concorsuali, anche a costo di chiamare le autorità competenti nel bel mezzo di un concorso (se può essere utile non so ma l’effetto di creare disordini e scompigli è, quanto meno, garantito). I grandi professoroni delle nostre Università, razza un po’ strana e a dire il vero unica nel panorama europeo, che a volte (troppo spesso ahinoi) neppure meritano il posto che chissà quale felice coincidenza gli ha accordato, devono capire che non possono fare tutto quello che vogliono senza subire le conseguenze che meritano; devono sentire il fremito che una bomba possa esplodergli addosso se non fanno le cose come è giusto vengano fatte.
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