L’attuale formalismo nazionale

Creato il 22 giugno 2011 da Ilcasos @ilcasos

La rubrica Eco&Voci, l’abbiamo pensata come un contenitore che possa raccogliere spunti, riflessioni, provocazioni magari prendendo spunto da quello che leggiamo tutti i giorni sulla stampa nazionale e non… L’idea è che questo si trasformi (ancora di piĂš) in uno spazio non solamente “nostro”, del Caso S., ma soprattutto di chi ci ha conosciuto nell’ultimo mese e ha pensato di volerci scrivere qualcosa. E, ovviamente, uno spazio dei lettori, delle discussioni, insomma, dei commenti.
La “penna” che vi proponiamo questa volta è quella di Diego Parravano, studente di filosofia alla Sapienza di Roma, il quale ha voluto spendere qualche parola su come questo centocinquantennale sia stato recepito dai cittadini che attreversavano le celebrazioni. Buona lettura!

Per cominciare parliamo d’altro. Meglio; parliamo del perchÊ, e di che senso avrebbe, parlare della coscienza di una collettività raccolta sotto il concetto di nazione. Il grande boom di temi sulla nostra storia nazionale, che i sistemi di comunicazione ci propongono con viva commozione, sembrerebbe spiegarsi miseramente in base a semplici causali numerologiche. Certo, troppo comodo trovare sempre un pretesto per lamentarsi.

Il logo dell'anniversario

Giustamente, come qualcuno ha osservato, si dovrebbe cogliere l’occasione che ci viene proposta per ripensare in maniera critica alcuni schemi e concetti che una certa tradizione (non indico quale poichĂŠ ognuno può trovare la sua) ci ha imposto, forse, un po’ troppo rigidamente. L’intento è sembrato quello di ripristinare un corpo a corpo diretto con i periodi cruciali del patrimonio storico-culturale italiano, in special modo quello risorgimentale. Forse, aldilĂ  del vantaggio commerciale necessariamente cercato in tutti i campi dell’editoria (cosa neanche troppo da biasimare dati i tempi), si possono leggere in quest’ottica le varie ripubblicazioni di opere quali quelle di Pellico o di Mazzini, di studi su Cavour o sul periodo risorgimentale, di agevolazioni sull’acquisto di manualistica e saggistica storica o di grandi classici della letteratura italiana. Ben venga il confronto con le nostre basi culturali, ben venga questa spinta a ricercare le fonti di tanto indottrinamento dogmatico. Potrebbe sembrare una estremizzazione forte e, forse, un po’ troppo cieca il parlare di dogmatismo rispetto alle molte sfaccettature che la storia patria assume nel suo essere recepita nel contesto italiano attuale. Ma, messe da parte tante affermazioni edificanti e politicamente corrette, alla realtĂ  dei fatti si conosce davvero poco della nostra storia nazionale, mediamente il minimo indispensabile. Gran parte del (de)merito va riportato all’uso di classificazioni troppo rigide, tanto da sfiorare l’aneddotica, tramite le quali ci viene riportata, letteralmente ex cathedra in gran parte dell’istruzione pubblica, una storia ridotta ormai a “corpo mortoâ€�, realmente incapace di instaurare un dialogo con la ricezione che ne abbiamo. Ripeto: ben venga, quindi, questo incentivare un rapporto diretto con i testi.

Il problema non è tanto negli effetti che si sono prodotti grazie al “risorgereâ€� del sentimento nazionale. Il problema è alla base. Ed è immemorabilmente vecchio. Per comprenderne la natura, secondo la linea interpretativa che prediligo mantenere, si deve tenere a mente la formula poc’anzi citata: ex cathedra. Cosa ha spinto tanta stampa e televisione a prodigarsi in dibattiti a tema su un’effettiva unitĂ  di identitĂ  nazionali? Che sia stata davvero la mera ricorrenza del centocinquantesimo anno dall’unificazione? Questo perpetrare il mito della cifra tonda, del sistema conchiuso, che va dai pitagorici, passando per le catastrofi apocalittiche degli anni a chiusura dei millenni, fino ad arrivare alla fobia del millenium bug? La trattazione, a base antropologica, di come il sentire comune si rapporti al carattere sacrale di certa simbologia (in questo caso il numero) richiederebbe uno spazio molto piĂš ampio. Si andrebbe fuori dal campo che si vuole prendere in esame. Ciò che è interessante notare è come la fruizione e la partecipazione a determinate tematiche avvenga in maniera tendenzialmente passiva. L’interesse pare lontano, se non lontanissimo, da un qualsiasi movimento di autogenerazione, seppur sempre mediato, all’interno di una coscienza individuale. La causa che determina il nostro interesse, a quanto sembra, ha origine in una fonte esterna. Si rischia di trasformare progressivamente delle eteroimposizioni in delle autoimposizioni. Questa posizione è facilmente criticabile se si pone in rilievo il fatto che possiamo liberamente aderire, o non aderire, a tale imposizione esterna. Questa posizione ha tutte le sue ragioni. La trovo, però, fortemente utopistica in un contesto in cui c’è una forte accentuazione del carattere di omologazione del comportamento. La tendenza è a comportarsi in maniera analoga all’ambiente circostante, lo fa anche un bambino nei suoi primi mesi di vita (anche qui la trattazione si potrebbe estendere in maniera notevole). Nella ricezione che si è avuta della tematica che i media hanno proposto non mi sento di poter dire che si è trovato un riconoscimento di un motivo aleggiante nella coscienza comune. Forse non nei termini assunti (penso ai casi in cui veniva analizzata la tematica con un appiglio che faceva molto “libro Cuoreâ€� oppure “maestro con la mela sulla cattedraâ€�) . C’è stato come un irrompere, all’interno dei mezzi di comunicazione, di qualcosa che, in linea generale, non si è riconosciuto come rispecchiante un desiderio comune. Il tema è stato per lo piĂš subĂŹto senza grandi pretese di voler replicare (se non nei casi in cui c’è stato un interesse interno che confluiva in ciò che veniva recepito dall’esterno: si vedano le varie “frange indipendentiste e/o federalisteâ€�). AldilĂ  dei casi in cui si è instaurato un rapporto dialettico, forse destinato a rimanere tale (si pensi ad es. alla Lega Nord), non ci sono stati grandi processi di ripensamento ed attualizzazione delle suggestioni nazionalizzanti. E cosĂŹ il 17 marzo è scivolato via senza troppe pretese. Non che non sia stato un bene proporre un momento di analisi di argomenti che troppo spesso vengono lasciati indietro e bollati come acquisiti (purtroppo formalmente). Rimane il fatto che la celebrazione pare aver assunto piĂš il carattere di una celebrazione liturgica, ed in vari frangenti lo è stata letteralmente, dando la cifra di quanto l’assimilazione di una identitĂ  nazionale rimanga ad un alto livello di astrattezza. Si celebra al solo fine di celebrare.

150 anni?

Il sottofondo di passività sul quale si muovono le trattazioni degli ultimi mesi è indice di quanto poco, in realtà, si sia attuato quel processo di riconoscimento, secondo l’accezione hegeliana, in grado di mettere in moto un movimento di rispecchiamento dell’individuo all’interno di una collettività identificata come nazione. Non pare esserci stato quel venirsi incontro delle esigenze dei singoli cittadini con ciò che si pretendeva di proporre e propugnare. La ricezione passiva ha fatto sÏ che non si trovasse un terreno fertile sul quale potesse germogliare una riflessione critica.
Pur nella maniera piĂš modesta possibile, con la coscienza di essere una goccia nel mare magnum, tenderei ad approfondire l’origine e la formazione di un’idea come quella di nazione al fine di ritrovare quei punti di contatto tra le esigenze (ed il sentire) di una comunitĂ  e quell’idea stessa. Punti di contatto che sembrano fortemente relegati in un passato pervenuto a noi in maniera troppo rigida e astratta per esser in grado di attivare un riconoscimento, un dialogo. Ăˆ proprio il riconoscimento, il venirsi incontro di ambo le parti (l’interesse individuale e la realtĂ  sociale, territoriale, politica etc. esterna all’individuo), l’elemento in grado di riattivare un collegamento che sembrerebbe essersi irrimediabilmente interrotto.

Walter Benjamin

Cosa si può avere a che fare con una tematica che cade dall’alto e che siamo costretti ad affrontare?Da dove deriva questo senso di sacralitĂ  che attribuiamo a ricorrenze storiche tonde? Personalmente non mi è mai capitato di intercettare per la cittĂ  voci inerenti l’argomento “UnitĂ  d’Italiaâ€�. Eppure se chiedessi in giro di porre un freno ai “fastiâ€� dei festeggiamenti sarei quasi sicuro di non potermi aspettare segnali di assenso. Non per fare del becero citazionismo, nĂŠ tantomeno per travisare il suo messaggio, ma piĂš mi scontro con queste situazioni piĂš mi tornano in mente le benjaminiane Tesi sul concetto di storia ed il suo saggio Per la critica della violenza. In un contesto (sicuramente molto piĂš “venialeâ€� rispetto a quello delle tesi) in cui si continua, nonostante tutto, a percepire un obbligo interiorizzato, sacrale, a prestar riverenza alle sfilate di cavalli e prelati la tentazione è forte. PerchĂŠ anche questo non può essere un modo di perpetuare la violenza dello storicismo? Benjamin, forse, poteva attribuire questa violenza alla forza dominante, che si irrigidiva e chiudeva al rinnovamento per difendere l’affermazione conquistata (in quel caso nel campo del diritto, ma qui l’esempio si presta bene). La posizione privilegiata andava difesa soffocando ogni voce ostile, bollando ogni contestazione come usurpazione, precludendo ogni possibilitĂ  di rinnovamento in quanto pericoloso strumento di deleggittimazione. Questo irrigidimento di schemi, che va dalle celebrazioni inderogabili alle varie beatificazioni fino al ripetersi sclerotizzato di insulse manifestazioni canore, l’abbiamo dinanzi continuamente ma non riusciamo ad attribuirlo a nessuna volontĂ  determinata. Si è costantemente sotto il peso di questa struttura rigida. Alberga in questo modo, nella coscienza di un popolo, la paura di ripensare diversamente la storia della propria nazione. Si dovrebbe avere piĂš coraggio nell’andare contro una determinata tradizione ed “aprireâ€� la storia a tutte le sue possibilitĂ  non tra-mandate. Il lavoro da assumere, che Benjamin attribuiva allo storico materialista, consiste nel trovare, nel “sentireâ€�, i punti dove questa struttura scricchiola per spingerla e buttarla giĂš. La storia, e qui prendo del tutto la posizione di Benjamin, come qualsiasi evento mass-mediatico e comunicativo, non è uno scorrere lineare, inesorabile e meccanico. Ad essa si “imponeâ€� di farlo quasi fosse una sovrastruttura in senso marxista. Ăˆ possibile trovare i punti di rottura di questa linearitĂ . Si possono riprendere in mano Mazzini, Pellico, Gramsci e ridare avvio ad altri 150 anni. Non si tratta di far rivivere nelle nostre coscienze piĂš di un secolo di storia in un semplice gioco ermeneutico. Si tratta di dar nuova linfa, di far respirare senza costrizioni e forzature la storia patria. Farsi carico degli errori e delle colpe che un popolo non ha voluto vedere, dare voce ai vinti senza cadere nell’errore di parificare i loro peculiari messaggi sotto la muta definizione di “martireâ€�. ÂŤTornare indietro per meglio andare avantiÂť diceva Pasolini (che in questo mutismo dei martiri rientra benissimo). Di tutte le figure che la storia ha soppresso la tradizione non ci ha portato altro se non il rispetto che si deve ai vinti, del loro pensiero poco ci offre. L’augurio è quello di tornare a questa storia nazionale per dare ad essa tutti i 150 anni che non ha ancora avuto e che pure ne sono una componente essenziale.


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