L’attualità di Balzac

Creato il 26 ottobre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

di Primula – Ma Bohème. Mi piace molto rileggere romanzi a me già noti, anche solo parti del testo.
Senza l’assillo della trama, riscopro nuovi dettagli, sfumature della psicologia dei personaggi che mi erano magari sfuggite, contenuti che non avevo intuito a un primo approccio.
Inoltre, ogni volta che, per lavoro o per diletto, mi capita di riaprire un’opera non recentissima, mi sorprendo della sua attualità.
Non è stupore, è piuttosto la constatazione, a volte amara a volte soddisfatta, che l’essenza dell’uomo non cambia: sentimenti, passioni, emozioni, bassezze o gesti nobili restano immutabili. Si modifica il modo di esprimerli, ma non la loro sostanza.

Ho recentemente “rispolverato” Papà Goriot di Balzac, uno dei tasselli dell’imponente Comédie Humaine: lo conosco bene, riletto varie volte, e mi sembra davvero come se fosse scritto da un autore di oggi, se non per lo stile, per alcuni messaggi che sono di una sconcertante contemporaneità.

Penso che le vicende narrate siano note; comunque rimando a questa pagina per una breve ma efficace sintesi della trama.

Mi preme condividere ciò che, nel romanzo, considero quasi come uno specchio dei nostri tempi: donne e uomini che vivono di apparenza, recitano un ruolo nel mondo del lavoro, in famiglia, nelle relazioni interpersonali, nella società.
È una “pièce teatrale” alla quale il lettore assiste: mai titolo Comédie Humaine fu più azzeccato.
Si finge, sempre e comunque, scientemente. Ogni scelta, ogni atteggiamento sono frutto di un calcolo ragionato. Scopo? Diventare importanti, qualcuno che conta, uscire dal limbo dell’oblio o dell’indifferenza degli altri. Apparire. Poco importa se la sostanza non corrisponde alla forma.

Papà Goriot pullula di personaggi; il protagonista è tradizionalmente considerato, e a ragione, chi dà il titolo al romanzo stesso, Goriot appunto.

Dal mio punto di vista, tuttavia, Eugène de Rastignac e Vautrin sono le figure che danno una dimensione di attualità alla narrazione.
Il primo è un giovane di provincia che arriva a Parigi per studiare legge, ignora le dinamiche dei rapporti sociali di questa grande città e deve impararle se vuole attuare il suo programma esistenziale e professionale; il secondo è il suo mentore, il suo consigliere che lo educa ai “nuovi valori” senza i quali non si va da nessuna parte.

 “Lei è ancora troppo giovane per conoscere bene Parigi, più tardi imparerà”

Non è certo un uomo colto, Vautrin, e nemmeno un borghese: è un individuo di bassa estrazione sociale che ha fatto di tutto nella sua vita, compreso un omicidio; conosce bene il mondo e trasmette al suo pupillo delle pillole di “saggezza” maturate in lui grazie alla condizione di perenne pregiudicato e di infiltrato nelle alte sfere.
Perché le persone cosiddette per bene hanno avuto bisogno di lui, e ancora se ne serviranno. E lui ne approfitterà, sfruttandole a sua volta.

Le pagine in cui Vautrin trasmette a Eugène la sua “filosofia di vita” sono, secondo me, mirabili.
Fanno immaginare il nostro presente, le figure dominanti, i comportamenti ricorrenti di fronte ai quali, almeno io, provo un profondo desiderio di aria pulita.
Si è disposti a qualunque compromesso persino con la propria coscienza in nome dell’affermazione personale.
E il denaro diventa un must; senza quello nessun potere: ecco i “nuovi valori”.
È il principio motore della società, il sangue che circola nelle vene degli individui e che, come un fluido magico, impregna la loro anima, i loro pensieri e le loro azioni.

Non c’è nulla di negativo nell’avere ambizioni, nell’aspirare a realizzare i propri progetti.
Ora, si possono raggiungere risultati con il talento, le capacità personali, una condotta esemplare; logico, auspicabile. Ma che fatica! Perché sprecare tanta energia quando è possibile ricorrere ad altre vie più brevi e più agevoli? Nessuno ci criticherebbe per questo, anzi! Poiché ormai “non ci sono princìpi, ma solo fatti, non ci sono leggi, ma solo circostanze!” spiega Vautrin a Eugène.

Corruzione e disonestà sono quindi la norma, non solo per i ricchi ma per tutti poiché “l’uomo è lo stesso in alto, in basso, in mezzo”.

Lo sa come ci si fa strada qui? Brillando per genio o per capacità di corruzione. Bisogna penetrare in questa massa di uomini come una palla da cannone o insinuarvisi come la peste. L’onestà non serve a niente. Ci si piega al potere del genio, lo si odia, si cerca di calunniarlo perché prende senza condividere; ma ci si piega se persiste. In poche parole, lo si adora quando non si è potuto seppellirlo nel fango. La corruzione domina, il talento è raro. La corruzione è quindi l’arma della mediocrità che abbonda, e ovunque ne sentirà la punta acuminata.

L’onestà è dunque un atteggiamento stupido.

Ma cosa crede che sia l’onest’uomo? A Parigi è colui che tace e rifiuta di spartire il bottino. Non le parlo di quei poveri iloti che ovunque faticano senza essere mai ricompensati del loro lavoro e che io chiamo la confraternita delle ciabatte del buon Dio. Certo, tra loro s’incontra la virtù in tutto lo splendore della sua stupidità, ma anche la miseria.

C’è sarcasmo, c’è amarezza nelle parole di Vautrin ma al contempo la consapevolezza che occorre fare i conti con questo stato di cose, volenti o nolenti.
Cinico realismo che aumenta esponenzialmente alla constatazione che la consuetudine e le abitudini hanno rimpiazzato la legge e che, come la legge, paradossalmente, fanno testo, creano un precedente. Ci si sente pertanto quasi giustificati nella disonestà. Anche perché, sottolinea Vautrin, se qualcuno diventa ricco in modo onesto nessuno lo crederà mai, si penserà sempre che abbia usato mezzi illeciti. Un povero cristo ha sgobbato tutta la vita, ha lavorato con rettitudine per essere comunque piazzato tra i “ladri”. Tanto vale faticare di meno: la nostra immagine pubblica non ne guadagna ma non ne perde.

Facciamo l’avvocato per diventare presidente di una corte d’assise e mandare dei poveri diavoli, migliori di noi, con un LF ¹ sulla spalla per dimostrare ai ricchi che possono dormire tranquilli. Non è piacevole, e poi è lunga. Prima, due anni di attesa a Parigi a guardare, senza toccarle, le delizie di cui siamo golosi. È faticoso desiderare sempre senza essere mai appagati. [ …. ]
Quindi soccomberà a questo supplizio, il più orrendo che si sia mai visto nell’inferno del buon Dio. Ammettiamo che sia giudizioso, che beva latte e componga elegie; generoso com’è, dopo tante noie e privazioni da rendere rabbioso un cane, dovrà cominciare col diventare il sostituto di qualche marpione, in un buco di città dove il governo le butterà lì mille franchi di stipendio, come si butta una zuppa al mastino di un macellaio. Abbaia ai ladri, difende i ricchi, fa ghigliottinare gente di cuore. Obbligatissimo! Se non ha protezioni, marcirà nel suo tribunale di provincia. Verso i trent’anni, sarà giudice a milleduecento franchi all’anno, se non ha ancora buttato la toga alle ortiche. Quando avrà raggiunto la quarantina, sposerà la figlia di qualche mugnaio, che possiederà una rendita di circa seimila lire. Grazie tante. Se avrà qualche protezione, sarà procuratore del re a trent’anni, con mille scudi di stipendio, e sposerà la figlia del sindaco. Se commetterà qualche bassezza politica, come leggere su una scheda Villèle invece di Manuel (fa rima e la coscienza è a posto), a quarant’anni sarà procuratore generale e potrà diventare deputato.
[ …. ]
Se nelle cento professioni che può intraprendere, s’incontrano dieci uomini che hanno rapidamente successo, la gente li chiama ladri. Tragga lei le conclusioni.

Il commento di Eugène è la classica esclamazione di chi è ancora estraneo alla logica dominante.

Ma allora la sua Parigi è un letamaio

Questo giovane ancora da educare esprime disgusto; la risposta di Vautrin lascia trasparire la triste rassegnazione:

È un dannato letamaio

La morale? Cupa, tetra, la speranza sembra mancare.
Le parole di Vautrin, ancora una volta, negano la possibilità di qualunque utopia:

Ecco com’è la vita. Non è meglio della cucina, puzza altrettanto e bisogna sporcarsi le mani se si vuol combinare qualcosa …. questa è tutta la morale della nostra epoca.

Di fronte a questo quadro di generale miseria morale, che riguarda la realtà storica e sociale della Francia nella prima metà dell’800, ma che assomiglia terribilmente alla nostra, voglio fare mio il grido di Eugène alla fine del romanzo
“E ora, a noi due!”
estrapolarlo dal contesto e lanciare una sfida, proporre un’assunzione di responsabilità da parte di tutti, sentirsi chiamati a svolgere un ruolo attivo, ognuno nel proprio ambito, per contribuire a un risanamento di cui abbiamo dannatamente bisogno e per il quale non è ammissibile delegare il compito sempre ad altri.
L’ignavia è un male del nostro tempo ed è a volte la risposta della ciurma al malcostume del capitano della nave.

¹ LF : lavori forzati, simbolo del condannato al bagno penale

Artwork, Honoré de Balzac on an 1842 daguerreotype by Louis-Auguste Bisson

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