L’autodafé di Emanuele Tonon

Creato il 10 ottobre 2011 da Andreapomella

Ho finito di leggere La luce prima di Emanuele Tonon (Isbn Edizioni) alle dieci e cinquantanove della prima sera fredda d’autunno. Il libro è di quelli che non scaldano, che non danno tepore, è piuttosto una specie di autodafé in cui l’autore, come gli antichi condannati dall’Inquisizione che venivano trascinati in pubblico a colpi di azotes, vestiti di sacchi e con i capelli rasati, pronuncia il suo personale e struggente atto di fede. L’atto di fede è rivolto a una madre appena scomparsa, una lunga ardente preghiera ricolma d’amore filiale. In molti, scrivendo intorno a questo libro, si sono chiesti se si tratti di un vero e proprio romanzo, o piuttosto di qualcos’altro. La risposta a questo interrogativo ce la fornisce l’autore in un passaggio del libro in cui dice: “La storia che racconto […] è solo visione, non cronaca. È testimonianza. Niente può essere detto nel linguaggio che non sia visione, nessuna verità può passare interamente nel linguaggio. La verità appartiene a un altro regno, a un vertice definitivo di silenzio e beatitudine”. Il rapporto con la madre descritto nelle pagine di questa immane preghiera è un rapporto totale. Il figlio si rivolge più volte alla madre chiamandola “amore”, in un senso così ampio come solo un rapporto che non si interrompe mai – dal primo essere embrione al divenire uomo, e che prosegue anche dopo la morte fisica, nel continuum vuoto e omogeneo dell’eternità – può essere. Non può esistere al mondo niente di più personale di una materia narrativa come questa, una storia d’amore che si fonde a tratti con la lotta per la sopravvivenza, una povertà silente che si manifesta negli oggetti quotidiani, nelle rate a sei anni per comprare una macchina, nelle sedie costruite in fabbrica chiedendo al padrone il permesso di fermarsi dopo il turno di lavoro. Noi, leggendo questo libro, è di fronte a questa sostanza privata che veniamo scaraventati, è di fronte a questa dichiarazione di incapacità a vivere al di fuori del ventre materno, un’incapacità eminentemente umana che ci rende quello che siamo, creature così piccole e attonite perennemente in cerca di un cosmo relativamente sicuro e indolore in cui abitare quella cosa che chiamiamo ‘vita’.

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