Le recenti sentenze della magistratura valdostana hanno portato allo scoperto una realtà presente da molti anni, ma sottaciuta. Oggi possiamo affermare, senza esagerare, che la Valle d’Aosta è contaminata dalla ‘ndrangheta. Che si paga il pizzo, che la politica è corrotta, che esiste il voto di scambio, che i roghi non sono per autoconbustione, che esistono le estorsioni e le minacce. Anche in questo non siamo diversi dalle altre regioni italiane, affatto immuni da questo male. Quello che però ancora non emerge in modo altrettanto chiaro è che, se la criminalità organizzata ha trovato facile terreno qui da noi è perché il terreno non solo era ed è fertile, ma anche abbondantemente concimato con letame locale. Non abbiamo avuto bisogno dei calabresi per imparare a chiedere il pizzo, magari sottoforma di interessi da capogiro per prestiti da usuraio. Non abbiamo imparato dai calabresi a usare la violenza contro chi contrasta i nostri interessi: qui al coltello si preferisce il sacco. Sfumature territoriali. Il ricorso al fiammifero invece è lo stesso, così come le minacce verbali e i segni simbolici, contraddistinti solo dalla diversità culturale dei linguaggi. Insomma, possiamo vantare una mafia nostrana che prospera da sempre e che è ben incanalata nelle pieghe della politica da cui è protetta. Gli scandali delle stalle d’oro, delle Fontine adulterate, delle bovine malate prima, delle bovine sane dopo, dei contributi a pioggia in un settore che moralmente è malato e corrotto (chiedo scusa a quei pochi onesti per l’inevitabile generalizzazione) nulla hanno a che vedere con i calabresi, ma riguardano una devianza autoctona. Su questo versante possiamo vantare un’autonomia di tutto rispetto. Quindi, se vogliamo conoscere e tentare di estirpare il male è bene guardarlo nella sua totalità e non abbracciare l’illusione di una esclusiva subcultura criminale importata dal sud.
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