“L'autunno è arrivato in ritardo”, le scrivevo. “O forse ci ha colto come al solito impreparati. Almeno, io stavo ancora lì, a cercare di inseguire le tue parole tracciate nel gioco e nel viaggio dentro me... No, non ho mai amato questo tempo, troppo in asse con le mie inquietudini. Mi racconta di foglie accartocciate sotto le suole in para, per esempio, di castagne da far cuocere a fuoco lento, della nebbia gialla che striscia la schiena sulla collina. L'ho sempre sentito poco congeniale al mio habitus primaverile, declinarsi svogliatamente dopo le lunghe estati adolescenziali. (Hai presente quella sensazione di umida estraneità agli eventi circostanti?…). Così, mentre guardo le gocce di pioggia sul davanzale farsi piene, appesantirsi e scolare giù, ascolto il mio corpo incompleto reclamare le tue mani. E mi lascio andare al sonno affinché, a occhi chiusi, il dolce domani arrivi prima...”.
Lei mi rispondeva: “Impossibile rassegnarsi all'autunno, all'inverno, alla mancanza di luce, alla pioggia, all'umidità. Faccio finta di nulla. E dico che simili stagioni si possono accettare solo se riscaldate dall'abbraccio di un uomo...”.