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L’AVVENTURA DEL CAVALIERE. L’addio, ovvero la spoliazione, scritto da Giuseppe Germinario

Creato il 17 agosto 2013 da Conflittiestrategie

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Nel codice cavalleresco medievale l’exitus auspicabile ai componenti dei ranghi più elevati, indole personale permettendo, presupponeva una lunga ma lucida e sopportabile agonia del protagonista. Il distacco e la transizione dell’anima imponeva, secondo il protocollo, la spoliazione volontaria da ogni fardello terreno che potesse appesantire lo spirito. La consuetudine ne dettava invece modalità e sequenza. Più il personaggio era importante, più la rappresentazione doveva essere pubblica ed accessibile.

La testimonianza più fulgida dell’osservanza di questo rituale rimane quella di Guglielmo il Maresciallo, vissuto nel cuore del sistema medievale, proprio nel suo momento di maggior forza e stabilità.

Fiaccato nelle forze da mesi di agonia, ma lucido e determinato, al più ben consigliato, al cospetto di famigliari, cortigiani, monarchi, cavalieri, ecclesiastici e plebe, iniziò il rituale con la trasmissione delle proprie cariche non ereditarie, compresa quella di reggente; proseguì con l’assegnazione dei beni ereditari ai discendenti, rispettando rigorosamente i canoni di comportamento e il diritto; distribuì il proprio patrimonio personale agli ecclesiasti e ai suoi fedeli cavalieri, ma seppe resistere validamente alle pressioni del clero tese a raccogliere la maggior parte delle prebende sfrugugliando manifestamente sui suoi presunti sensi di colpa frutto di mille trame, battaglie e bottini conquistati. Seppe resistere validamente non ostante il corpo infiacchito; riuscì a dare loro una lezione di politica e contrapporre alla loro pelosa e moralistica avidità lo spirito e la gratitudine di casta, offrendo ai suoi cavalieri gran parte del bottino personale. Non dimenticò la plebe e i questuanti che circondavano il suo castello in attesa della sua morte e soprattutto delle libagioni che facilitassero l’ascesa della sua anima attraverso la soddisfazione delle pance e dell’assalto alle residue spoglie da condividere. Solo dopo aver sistemato le proprie incombenze terrene ed aver evitato quindi pregiudizio agli accoliti, consegnò se stesso all’ordine dei Templari, a beneficio della sua anima ma senza rinnegare i trascorsi di cavaliere.

Nell’Italia di ieri, già propensa a ripiombare nel parapiglia caotico dei suoi secoli bui, l’ultimo exitus di un cavaliere, vagamente paragonabile a quello di Guglielmo, è stato quello dell’Avvocato per antonomasia, di Gianni Agnelli. Ci riuscì a malapena perché solo con grande fatica poté celare sotto il tappeto la polvere dei dissapori dinastici sulla spartizione e sbiadire le ombre sulle tragedie familiari. Di sicuro la sua gloria evaporò rapidamente pochi mesi dopo la sua morte, affossata definitivamente dal suo ultimo epigone in maglioncino.

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Nell’Italia di oggi, l’ultimo Cavaliere, almeno al momento, Silvio Berlusconi non sembra in grado di rispettare minimamente quei canoni di buona morte; proprio lui che ha costruito sulle immagini, sulla televisione, sul pubblico e sulla pubblicità fluorescente, la propria fortuna economica e politica. La luce e lo sfarfallìo di quegli schermi hanno però attirato ogni specie di insetti, innocui ed effimeri come le falene, ma anche i più molesti e velenosi. Abbagliati, la maggior parte non ha fatto che cozzare e realizzare una brutta fine spiaccicata sui video. Il loro passaggio ha infastidito e perseguitato un pubblico sempre meno disposto a sopportare le molestie pur di assistere ai messaggi a senso unico; il sacrificio impotente e involontario dei coleotteri ha offuscato via via la nitidezza di quegli stessi messaggi.

La sua agonia è iniziata quattro anni fa e sta durando troppo a lungo per non logorare i suoi stessi sostenitori paralizzati da una perenne attesa; cominciò con una innocua foto a Porto Cervo, proseguì con una statuetta minacciosa sul volto a Milano, subì una accelerazione con la fronda posticcia di Gianfranco Fini, fu macchiata dall’ignominia di un allegro tradimento di Gheddafi; ritenne di mettere a frutto tanta disponibilità, mercanteggiando la sua “caduta in piedi” con la pubblica genuflessione davanti al suo sovrano e carnefice d’oltreoceano. Quest’ultimo gesto illuminò del tutto i suoi veri avversari riguardo al reale spessore del personaggio; pronti a porgergli la mano sulla spalla come fanno i padrini per indicare e illudere le vittime, lo condannarono inesorabilmente alle successive inevitabili prostrazioni dalle quali farà sempre più fatica a sollevarsi.

L’Italia è un paese secolarizzato e aduso all’eccesso dietro una patina di perbenismo moralista. Poiché la consuetudine e la relazione informale riescono sempre meno a regolare il Bene e il Giusto, ecco che la legge e la giustizia si arrogano il diritto di propinarli per sanzione e diritto divino. Il politicamente corretto ha bisogno della sanzione giudiziaria e del manto legislativo, così come la salvaguardia dei diritti umani nel mondo ha bisogno del braccio armato della peggiore feccia balorda al servizio più o meno consapevole dei miscredenti. Questi ultimi li abbiamo visti all’opera sfacciatamente in Libia e Siria.

Distribuire il bene contro la volontà stessa dei beneficiati è ormai un assunto comune acquisito dagli strateghi del caos.

L’inevitabilità dell’azione giudiziaria, prevista dal nostro codice penale, è diventato lo strumento di azione caotico e apparentemente casuale quanto ipocrita di un arbitrio che, altrimenti, dovrebbe essere il frutto di scelte politiche più esplicite.

Nessuno dei gesti compiuti da Guglielmo ha mantenuto, nell’ultimo Cavaliere, la caratteristica della volontarietà e la sequenza canonica.

La spoliazione delle cariche pubbliche è iniziata con la “moral suasion” presidenziale nel 2011, culminata con il Governo Monti, è proseguita con il varco aperto dalla recente sentenza di Cassazione. Quel varco renderà più agevole l’effetto annichilente delle prossime sentenze e di chissà quante altre iniziative giudiziarie.

La spoliazione del patrimonio famigliare non seguirà subito dopo, così come previsto dai canoni dell’exitus. Costituirà solo l’epilogo della vicenda e servirà a garantire solo in parte la prosecuzione della dinastia, ma anche gli appetiti delle orde di cortigiani predatori, infidi ed opportunisti. Le proporzioni dipenderanno dalla reiterata disponibilità alla prostrazione del capostipite. Qualche brandello consistente è già transitato nelle tasche di un altro artefice della “Repubblica”, suo rivale il quale ha costruito la sua rispettabilità e la sua fortuna sulle ceneri delle più promettenti aziende italiane e sui suoi legami con gli ambienti democratici americani. La sua abilità principale, come per il suo nemico, è quella di usare l’arma editoriale; il suo limite, a differenza di Berlusconi, è quella di utilizzare la stessa arma per distruggere non solo il partito avversario, ma anche il proprio di riferimento. Per mantenere in sospeso il proprio partito, d’altronde, Berlusconi utilizza altri strumenti.

La spoliazione del patrimonio personale sta rallentando il flusso proprio nel momento in cui urge alleggerire la propria anima. La generosità del personaggio, lo sostengo senza venature ironiche, è fuori discussione; i suoi cattivi consiglieri gli hanno purtroppo imposto la rigorosa interdizione dai luoghi privati, ma non riservati, di intrattenimento e sollazzo. Manca a lui, quindi, il luogo principale deputato all’elargizione; a gran parte degli altri l’oggetto essenziale delle malelingue e delle indagini morbose.

No party, no money

Manca del tutto la distribuzione di pillole di saggezza, appannaggio di personalità dotate di autorevolezza e di controllo della situazione.

Presupporrebbe, quantomeno, l’esistenza di una comunità devota stretta attorno al leader; purtroppo per lui, quella comunità si sta erodendo inesorabilmente, mentre l’ordalia famelica sta stringendo sempre più l’assedio.

Tutto lascia intendere un destino maligno e inesorabile che lentamente sta spingendo il protagonista al congedo brusco piuttosto che ad una celebrazione benevola.

Non sono mancati, né mancheranno ancora sussulti sorprendenti; a volte sono apparsi addirittura come vittorie sfolgoranti ma solo perché il mero contenimento delle perdite ha messo a nudo la corrispondente debolezza e insulsaggine degli avversari, vincitori effimeri o sconfitti inattesi che fossero.

Eppure a Berlusconi non sono mancate le occasioni per sbaragliare gli avversari.

Ha sofferto, però, di due limiti fondamentali; e che limiti!

dal punto di vista strategico ha accettato in maniera pedissequa, pur con qualche riottosità che ne ha accentuato l’aspetto patetico, quegli stessi diktat americani che i suoi avversari assecondano con entusiasmo;

dal punto di vista tattico ha utilizzato al meglio lo scenario parlamentare e mediatico, ma si è dimostrato del tutto incapace di controllare le leve fondamentali del potere statale, con il risultato di rendere impraticabile e velleitario un qualsiasi cambio di strategia minimamente più autorevole e autonoma per il paese.

Uno scontro politico che prometteva di esser serio si è, quindi, man mano trasformato in una pantomima dove però, nel finale, è previsto il sacrificio reale di taluni protagonisti. Una vera battaglia, ma in un teatro ben delimitato e circoscritto dall’imperatore.

Quest’ultimo, grazie alle sue prerogative, si può permettere anche di tifare per uno degli schieramenti con la certezza che, qualunque sia l’esito, rimarrà il destinatario ultimo della deferenza del vincitore.

La speranza recondita di Berlusconi è quella di riuscire a costruire, con un po’ di radicalismo antitedesco e di liberal-liberismo demodè, quella formazione di centro, ormai diventata la chimera dei nostri strateghi d’accatto; di fatto l’obbiettivo si riduce a procrastinare quanto più possibile l’agonia e la sopravvivenza propria e di riflesso degli avversari, ma con una base di consenso dei vari schieramenti sempre più ristretta.

Questa dinamica e l’inerzia autoconservativa delle attuali istituzioni la quale determina le modalità di gestazione e attuazione delle decisioni e dei conflitti stanno progressivamente trasformando il confronto e la collusione di élites, una volta radicate in solidi blocchi sociali, in un conflitto caotico di oligarchie frammentate, dai poteri poco concentrati e poco estesi e perciò stesso sempre più tentate di mettere all’asta al di fuori del paese la tutela delle proprie ambizioni e dei propri interessi.

Il corollario usuale di questi conflitti prevede la spoliazione involontaria del perdente temporaneo. Per i dirittoumanitaristi che hanno goduto e tollerato così bene il tragico sacrificio di Gheddafi in nome della democrazia in Libia rappresenterebbe comunque un passo avanti nel mondo civile.

Per ora il paese è sotto la protezione sostanziale di un unico deus ex machina e il conflitto rimane rinchiuso nell’arena a scapito ormai del “panem” da distribuire al popolo.

Dovessero aggiungersi nuovi imperatori stranieri, rischieremo di assistere ad una nuova edizione della disfida di Barletta, tanto celebrata nei manuali di storia, con i cavalieri italiani, sì pronti a difendere eroicamente con le armi il loro onore, ma indossando le uniformi degli spagnoli di turno.

L’alternativa? Ci stiamo sforzando di delinearla. Comincia ad essere, però, veramente tardi

 


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