L’avventura di tambroni

Creato il 06 luglio 2010 da Renzomazzetti

Il nuovo decennio si aprì con la tragedia e con una sanguinosa avventura, in un’Italia che entrava in una mutazione accelerata. Certo, nel mondo erano ancora in campo gli uomini della infinita seconda guerra mondiale contro il fascismo: Eisenhower, Churchill, Chruscev, Togliatti, Tito, Mao… Ma insieme avanzava sulla scena con le sue passioni una nuova generazione di giovanissimi. E la transizione recava crisi. In Italia, forza chiave dell’élite al potere era la Democrazia cristiana, il partito di gran lunga più forte nel panorama politico, e componente necessaria di ogni possibile governo: fosse essa fondata su una intesa tra il soggetto cattolico e la sinistra, o invece una formazione che si servisse – come sostegno subalterno – di quei due brandelli reazionari, che erano il Movimento sociale e i monarchici. Quanto ai liberali erano solo una pattuglia conservatrice, pronta sempre, seppure con qualche bizza, a sostenere l’attore democristiano. Nel maggio del ‘58 si era andati di nuovo alle urne, mentre era in atto l’inizio di una netta ripresa economica e industriale, che segnava finalmente l’uscita dell’Italia dalle difficoltà economiche. E però, contemporaneamente, si apriva tutto un campo di questioni inedite, attinenti alle profonde trasformazioni innestate dalla innovazione fordista. Diviso era anche il partito maggiore: la dirigenza democristiana sosteneva con molte esitazioni la cosiddetta apertura a sinistra: ma il corpo grosso di quel partito riluttava duramente a quella svolta; mentre prendeva forza una corrente che aveva alla sua testa leader furbi e manovrieri come Rumor, Emilio Colombo, Taviani: tutte figure d’impronta moderata che resistevano anche a un’intesa con i socialisti di Nenni. Quella frazione democristiana s’era riunita in un convento intitolato a Santa Dorotea, e da ciò avevano preso quel nome curioso di dorotei che poi divenne quasi simbolo di una manovra politica furba e spregiudicata. Presto il comando della Dc finì tutto nelle loro mani. Con una integrazione importante però: la figura di Aldo Moro: assurto alla segreteria del partito, mentre Fanfani, mordendo il freno, era stato obbligato ad accettare un rinvio del suo disegno di intesa con Pietro Nenni e i socialisti moderati. Dopo una breve e sbiadita transizione che vide a capo del governo un pallido Antonio Segni, il presidente della Repubblica Gronchi, che era politico di chiara storia di sinistra ma peccava spesso di presunzione, puntò su una soluzione strana e inattesa. Affidò la presidenza del Consiglio a un personaggio pressoché ignoto: Ferdinando Tambroni. Quando sulle agenzie di stampa lessi quel nome, non capii. Presto potei verificare che era una figura senza una storia politica che avesse un significato. Difatti non riuscì a trovare sostegni di valore nella mappa politica democristiana: neppure, se ricordo bene, nell’ala di destra che allora faceva capo ad Andreotti. Ma Tambroni era cariaceo e non si lasciò turbare. Accettò di buon grado l’appoggio che si precipitarono a dargli i missini. E Gronchi tranquillamente (stranamente) disse di sì. La collera dei socialisti nenniani, che consideravano ormai come vicino un governo bicolore Dc-Psi, fu grande. Il loro dissenso rabbioso rese ancora più clamoroso l’abbraccio che sopravvenne fra quell’oscuro politico di provincia e la banda missina, che non celò il suo entusiasmo. E dalla sponda fascista, per bocca del segretario Almirante, venne presto l’annuncio della data a breve del loro congresso: la sede scelta era Genova. Apparve subito una decisione pesantemente provocatoria: Genova era una città-simbolo della Resistenza antifascista. Era stata la prima ad insorgere in quell’aprile luminoso del 1945, e aveva letteralmente cacciato dalle sue strade e costretto alla resa le truppe naziste, senza nemmeno il ricorso degli angloamericani. Appena giunse l’annuncio del congresso missino, la città scattò. Il popolo scese in piazza, e Genova fu praticamente tutta nelle mani della rivolta popolare. Presto la protesta dilagò in altre regioni d’Italia, fino alla Sicilia. Tambroni rispose secondo un vecchio, triste codice: scatenò la repressione e mise mano alle armi, e subito insanguinò piazze e strade del Nord e del Sud d’Italia. Presto il Paese conobbe ancora una catena di morti. Gli ultimi giorni di giugno la protesta popolare dilagava a Ferrara, Torino, Milano, Livorno, dove l’urto fra la popolazione e reparti di paracadutisti durò giorni e giorni. A Roma ci fu uno scontro violento e carico di simboli presso la Piramide di Caio Cestio. Ricordo l’emozione di quelle ore: quando, dai gradini dell’ingresso di Montecitorio, si mosse, in un pesante silenzio, quel lungo corteo alla cui testa, l’uno di fianco all’altro, eravamo il questore della Camera Lizzadri e io, presidente del gruppo comunista. Seguiva un fiume di popolo. Quando fummo a pochi passi della Piramide Cestia, e i canti già venivano spegnendosi, improvvisamente si scatenò la repressione armata: come a monito e a ricordare tempi lontani. Alla testa della polizia che attaccava irruppe, scatenato, un reparto di cavalleria guidato da un cavaliere famoso, D’Inzeo. Non dimenticherò mai la sensazione amara di offesa pesante che ci diede l’assalto inutile di quel reparto contro la folla inerme: non motivato da alcuna violenza. E i cavalli incitati a frustate, tra gridi e pianti delle compagne, mentre subito si levavano i canti della tradizione. Ci chiedevamo quali tempi foschi stessero tornando. Una pattuglia di noi riuscì a traversare i cavalli in furia, puntando rabbiosamente a posare quella corona innocente sulla Piramide Cestia, luogo simbolo della Resistenza disperata dell’8 settembre del ‘43. Ma a un passo dall’antico monumento l’assalto della truppa si fece più forsennato. Vidi con i miei occhi come fu selvaggiamente, e più volte, colpito al capo un compagno catanese, Pezzino, assolutamente inerme, salvato per miracolo dall’intervento di Lizzadri, che rabbiosamente levava in alto la sua tessera di dirigente della Camera dei deputati. E sembravamo, io e Lizzadri, ridicoli nelle nostre proteste mentre un pugno di poliziotti sbrigativi ci cacciavano dentro una buia camionetta, accompagnando la violenza con una furente dose d’insulti. C’era una certa ironia nelle parole con cui, più tardi, nella sede centrale della questura, mi accolse il commissario capo, restituendomi il tesserino di deputato: Onorevole, sapete come accade… Quasi a dire: Ma voi, dove vi andate a cacciare… Per un istante mi venne di rispondere rabbiosamente: già, dove mi vado a cacciare… Come sempre la violenza più pesante e diffusa esplose nelle terre del Sud: a San Ferdinando di Puglia gli sbirri giunsero a spaccare la testa a gruppi di braccianti col calcio dei moschetti.

E il 7 luglio venne la tragedia di Reggio. La Cgil reggiana, la sera del 6, aveva proclamato uno sciopero generale di protesta contro i fatti di Roma, invocando la tutela dei diritti del Parlamento. In tutta l’Emilia-Romagna lo sciopero venne esteso all’intera giornata. A Reggio nel pomeriggio era indetto un incontro pubblico alla sala Verdi. Ma era una sala troppo piccola per accogliere la marea di manifestanti. Allora un gruppo di operai delle Reggiane decise di raccogliersi al centro della piazza, attorno al monumento ai caduti, cantando canzoni-simbolo della Resistenza. La polizia, spronata dal vicequestore, non sopportò nemmeno quella protesta pacifica. E partì violenta la prima carica. Poi venne il peggio. Il maestro elementare Antonio Zambonelli ricordava così quelle ore: Cominciarono i caroselli degli automezzi della polizia. Gli idranti furono i primi ad agire; e poiché i manifestanti non arretravano, si scatenarono le camionette a spezzare i grappoli di folla con i getti d’acqua e i lacrimogeni. Allora la massa dei manifestanti ripiegò nel vicino isolato di San Rocco e fece raccolta di sassi, bastoni, assi di legno. I poliziotti misero mano alle armi da fuoco. Cominciò l’eccidio. Teng-teng… l’aria scandiva questo rumore. Erano pallottole, dice Rovacchi (un altro testimone), e racconta: Ci ritirammo sotto l’isolato di San Rocco. Vidi un poliziotto scendere dall’autobotte, inginocchiarsi e sparare verso i giardini, ad altezza d’uomo. Alfredo Tondelli si trovò per un istante isolato al centro di piazza della Libertà: un poliziotto s’inginocchiò, estrasse la pistola e sparò a colpo sicuro. Tondelli cadde al centro della piazza. Lauro Ferioli fu freddato in pieno petto, alla distanza di soli cento metri. Marino Serri, si sporse da un angolo verso il luogo degli spari, gridando: Assassini! Ma fu subito falciato da una raffica. Emilio Reverberi, operai alle Reggiane, invece fu abbattuto sotto i portici dell’isolato di San Rocco. Spirò in sala operatoria. Rocorda ancora Rovacchi: La macchina del sindacato girava tra i tumulti, e l’altoparlante ci invitava a lasciare la piazza, ma noi non avevamo alcuna intenzione di ritirarci, qualcuno incitava addirittura a levare le barricate. Non avremmo sgomberato la piazza fino a quando la polizia non spariva. E così fu. Mentre correvo inciampai su un corpo senza vita, vicino al negozio di Zamboni- Era il corpo di Reverberi, ma lo capii soltanto dopo. Il bilancio ufficiale dell’aggressione fu di cinque morti e alcuni feriti, altri invece dicono: decine, o forse più. Un chirurgo, Riccardo Motta, parlò di circa dodici ore trascorse in sala operatoria. Disse: Sembrava una situazione di guerra: non c’era tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l’apprensione e il dolore dei parenti. Nella città dilagava furore e pianto. Lo stesso giorno s’accesero scontri lungo tutto il filo della penisola: a Napoli, a Modena, a Parma. A Palermo la polizia caricò senza preavviso: freddò Francesco Vella, un mastro muratore che stava soccorrendo un ragazzo di sedici anni colpito da un colpo di moschetto al petto. E cadde anche Andrea Gangitano, un giovane manovale. A catania venne massacrato a manganellate Salvatore Novembre, poco più che adolescente: il suo corpo venne trascinato al centro di piazza Stesicoro, come una sorta di monito, perché tutti vedessero e capissero. Il nome di quei caduti poi dilagò nella penisola, sull’onda di quella canzone di Amodei, che terminava così: morti di Reggio Emilia/ uscite dalla fossa/ fuori a cantar con noi Bandiera rossa. Giovanna Marini e un gruppo di donne la portarono, quella canzone, in giro per tutta l’Italia. Alla fine quell’avventuriero sanguinario fu cacciato dal governo. E la sua sconfitta non fu solo lo scacco di un politicante grossolano. Fece tappa nel cammino politico del Paese. E investì un punto cruciale nella storia di quel tempo tragico: chiamava in causa tutto il vasto mondo cattolico. In realtà dal momento in cui cominciò a delinearsi la sconfitta del nazifascismo nello scontro mondiale, l’assillo tenace del Vaticano era stato di appoggiare e aiutare il risorgere di una forza politica strettamente legata agli orientamenti della curia, aspramente impegnata nella lotta anticomunista, incalzando e scavalcando anche la prudenza di De Gasperi. L’offensiva clericale s’affidava a un movimento che superava i confini del partito democristiano, e aveva una sua struttura largamente e tenacemente diramata nel Paese: prima di tutto con la rete dei Comitati civici diretta da un sanfedista arrabbiato come Luigi Gedda, e inoltre con la trama di un’organizzazione contadina diretta da Paolo Bonomi: che era di bassa connotazione corporativa, ma dotata di una forte capacità nell’assicurare favori, ausili, e soccorsi per quel mondo contadino, uscito a pezzi e pesantemente ferito dalla guerra. Infine pesava e interveniva direttamente in politica la rete delle parrocchie, dei vescovati, persino dei monasteri. Quel mondo potente e articolato, di netta impronta clericale, aveva guidato una rabbiosa campagna avvalendosi anche della scomunica anticomunista lanciata da un profeta ieratico e cupo come papa Pacelli. Persino Sturzo s’era lasciato invischiare nella sfrenata campagna sanfedista, di cui non veniva per nulla celato il coté politico: il controllo non solo delle anime, ma del potere statale: tale era l’obiettivo chiaramente perseguito e dichiarato. Il crollo di Tambroni segnò anche la sconfitta di quel disegno sanfedista. L’evento vero che però tagliò le gambe a quella reazione fu l’emergere sulla scena di nuovi strati di popolo, prima di tutto di una generazione di giovanissimi, appena entrati nelle fabbriche e nelle imprese della nuova economia fordista. -PIETRO INGRAO, Volevo la luna, Einaudi, 2007-

PER I MORTI DI REGGIO EMILIA (parte)

Compagno cittadino,

fratello partigiano,

teniamoci per mano

in questi giorni tristi:

di nuovo a Reggio Emilia

di nuovo là in Sicilia

son morti dei compagni

per mano dei fascisti.

Di nuovo come un tempo,

sopra l’Italia intera

urla il vento e soffia la bufera.

-F. Amodei


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :