Ciò si vede in tutti i tempi e si potrebbe esemplificare con esempii a noi prossimi; ma basterebbe osservarlo nella forma spiccata, e si potrebbe dire classica, che ebbe in Italia tra gli ultimi del cinque e i primi decennii del seicento. Allora tutta la mirabile poesia e prosa italiana dei più varii toni, che era fiorita dalla fine del dugento al pieno rinascimento, fu guardata con superiorità, con compassione, con fastidio; e a Dante si volsero le spalle, e Petrarca parve troppo disadorno, e persino uno stilista di vigoroso senso poetico, Giovanni della Casa, un tempo plaudito e imitato dai novatori, fu detto a scherno «una casa cadente», e Torquato Tasso ebbe bensì ammirazione ma piuttosto per il suo clinquant, precursore del barocchismo, che non per l’oro schietto che era nella Gerusalemme e nell’Aminta, e fu salutato aurora del nuovo sole raggiante ormai sorto in pieno, il Marino. Allora la poesia italiana chiudeva il ciclo dei suoi tre secoli creativi e le succedeva una esercitazione tra sensuale e ingegnosa, tra meretricia e funambolesca, e poi altresì galante e cantante, che non fu superata se non quando la scosse via l’impeto sublime di un Vittorio Alfieri, che non ricercò il nuovo per se ma lo produsse dal profondo, aspro e scontroso suo petto, come si produce sempre la poesia, come necessità e spontaneità insieme. Simile essa è in ciò alla verità, di cui si dice in uno degli Xenia di Goethe-Schiller che molte migliaia di esploratori ne vanno in traccia indarno, perché quella viene da sé e passa in mezzo a loro con passo leggiero. E si risentì allora la bellezza della poesia antica ed eterna, che non muore e non invecchia mai e ritiene sempre la sua freschezza originaria, e, per innumeri volte che si riveda, apporta sempre gioia. Chi prova mai sazietà o distacco all’addio di Ettore ad Andromaca, alla confessione dell’amore di Francesca, al pianto di Lear sulla morta Cordelia? Perfino qui è la distinzione tra poesia e prosa, tra fantasia e logicità, che tanti sofistici pedanti si sono affaticati invano ad obliterare e abolire, perché la verità filosofica è bensì come la bellezza perpetuamente viva, ma la sua vita è nel nostro nuovo pensiero che la intende e l’approva e nell’atto stesso la limita in quanto la prosegue e la compie, laddove la poesia non scende a noi ma noi tira a sé e non soffre rielaborazioni, limitazioni e prosecuzioni. E se è così, quale ridevole improntitudine, quale goffo provincialismo è di coloro che pensano di sostituire la sua grande ed eterna città con un loro piccolo borgo di recente e affrettata costruzione, che solo in qualche sua parte o particella amplia quella città, e nel resto è un accozzo di case inabitabili o una presunzione di case inesistenti!
S’intende per questa considerazione che all’entusiasmo e al fanatismo per la letteratura nuova di zecca si opponga un geloso e quasi esclusivo zelo e amore per quella passata e s’inculchi di stringersi forte a lei, perché, nascano o no nuove opere belle, il possesso di lei è una fonte inesauribile ed inesausta di conforto e di interiore preparazione, che basta a tener vivo il sentimento estetico, essenziale alla vita umana. Donde l’ammonizione a non smarrire la coscienza e la conoscenza della classica arte, correndo dietro a un torbido e infido romanticismo del nuovo.
Ma tuttavia non bisogna dimenticare che questa che si è descritta non è già la corruttela o la nequizia della nostra o di una particolare età, ma cosa di ogni tempo e di ogni età, e che sempre le opere vere di bellezza sono assurte su consimili bassure. Come mai le passate età della poesia e della letteratura ci appaiono cosi alte e luminose? Non dunque perché quel che abbiamo definito il demimonde o la società equivoca non ci fosse in esse, tale e quale, del pari stupida e fastidiosa e ripugnante, ma perché, per una parte, i critici, furcillis, coi loro forconi, l’hanno gettata giù precipite dal Parnasso, e per l’altra e maggior parte l’hanno lasciata affondare da sé nel fiume dell’oblio, sicchè se ne sono distrutte perfino le carte stampate che le biblioteche non usano raccogliere e dove solo alcuni volumi ne penetrano quasi per accidente, e vi sono serbati perché vi sono entrati e talora perché hanno assunto carattere di documenti. Che cosa è rimasto della copiosissima e vivacissima e divulgatissima letteratura francese del tempo che corse tra il 1870 e il 1900? Flaubert, Maupassant, Becque, sì e no Zola, e qualche altro.
Ora, a questo sceveramento di valori il critico non può ricusarsi chiudendosi nel suo sommario disgusto, perché mancherebbe al suo ufficio. Può, secondo le sue predilezioni e la sua preparazione, essere portato più alla letteratura antica che non alla moderna, e più a questa in genere che non alla contemporanea; ma non è da favorire, e molto meno da giustificare, il disinteressamento suo neppure da questa sola, perché la conoscenza e l’esperienza dei varii tempi, e quella del farsi e dell’assorgere della poesia e letteratura buona sotto i nostri occhi in mezzo al tumulto delle opere brutte, aiuta a intendere l’unico mondo dell’arte. E, d’altra parte, il critico specialista della letteratura contemporanea, se non possiede lo sfondo universale dell’arte del passato, non è in grado di riconoscere quella che è propria del presente o è portato ad esagerarne il significato e il valore. E, se un consiglio gli si dovesse dare, sarebbe di ricercare in prima linea ciò che al gusto esercitato e sicuro si dimostra sano e duraturo, e passar sotto silenzio quanto più si può delle altre opere, e intervenire con la debita severità e acribia solo nei casi in cui l’opinione più o meno artificialmente formatasi abbia stabilito senza discernimento reputazioni che non hanno buon fondamento o che debbono essere integrate da eccezioni e riserve. A me (per accennare a me personalmente), quantunque della letteratura ora contemporanea dei giovani non mi sia potuto tenere così pienamente informato come ero di quella dei miei anni giovanili, alla quale sono stato perciò in grado di dedicare sei volumi, è accaduto per questa e talvolta per l’altra non solo di esercitare la cosiddetta severità che altri ometteva, ma di contribuire a far rendere giustizia a ingegni e ad opere sincere; e se la soddisfazione intellettuale da me provata nel primo caso è stata venata di dispiacere per aver dovuto recare dolore a uomini degni, come erano il Pascoli e il Fogazzaro, quella del secondo caso, mi è sempre dolce nel ricordo.
BENEDETTO CROCE (Quaderni della “Critica”, dicembre 1945, n. 3)