Di Alessandro M.
A questo punto i due vivranno una lunga serie d’avventure.
Lui mentre cova scriverà un libro sull’attesa e farà amicizia con un simpaticissimo riccio “spuntato”, gonfiatore di palloncini in pensione; lei cercherà invano un lavoro, ossessionata dalla probabile futura domanda dei suoi figli: “Ma che lavoro fai? Cosa fai nella vita?”.
In questi giorni d’attesa si interrogano entrambi sul contenuto delle uova, e provano ad immaginarsi i figli a loro immagine e somiglianza.
Alla fine, nonostante i pericoli corsi, riusciranno ad assistere insieme alla schiusa delle uova.
Questo libro non è solo una favola. In primis, perché ci sono, seminascosti, appena accennati, svariati accenni alla vita reale e a problemi del mondo d’oggi (governo, lavoro precario, guerre, ad esempio), appena percepibili nella leggerezza della narrazione.
In secondo luogo, perché alla fine, secondo il palese intento dell’autrice, c’è una morale che è una grande lezione di vita: la celebrazione dell’attesa, in senso lato, come valore ormai perduto e soppiantato dalla tecnologia e da un modo di pensare sempre più frenetico che non lascia più spazio alla riflessione.
In una simile asfissiante società, sono queste piccole cose a farci vivere davvero l’attesa di fronte a dei semi piantati o quella di fronte ad una lettera che deve arrivare. Ma soprattutto l’attesa più insostituibile di tutte: quella che prelude alla nascita, il momento sublime in cui qualcosa che è parte di noi prende finalmente vita.
E se covano i lupi, di Paola Mastracola
(ed. Guanda, 2008, pp. 224, ISBN 9788860884916)
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