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L’economia cinese nel 2013: sfide ambientali e rinnovamento industriale sotto il segno del serpente

Creato il 30 gennaio 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Daniele Villaci

China-Pollution-Problem
Secondo il calendario astrologico cinese il 2013 sarà l’anno del serpente, un segno caratterizzato da una spiccata dote diplomatica che permette di aggirare abilmente anche le situazioni più dannose. Al tempo stesso però, data la doppia sfumatura dello yin-yang, il serpente rappresenta la capacità di sacrificare parte della ricchezza accumulata per preservare il benessere dei propri cari.

Dopo la straripante consacrazione di Xi Jingping al XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese e l’inaugurazione del nuovo Comitato Permanente a fine 2012, il 2013 della Cina si è aperto con due eventi singolari, al quanto emblematici della doppia peculiarità del segno.

Dei due però, solo il primo ha catalizzato l’attenzione dei media occidentali. I telespettatori dei telegiornali di tutto il mondo hanno osservato con curiosità le immagini di una Pechino da inferno dantesco, intrappolata in una densa cappa di nebbia color catrame, che ha oscurato completamente il cielo, i grattacieli della nuova city e persino il sorriso indulgente della statua di Mao, che svetta al centro di Piazza Tian An Men. Inutile ricordare che la qualità dell’aria di Pechino è ben al di là di ogni soglia minima di sicurezza: le particelle più dannose PM2.5, tra le cause maggiori di tumori nella popolazione delle aree urbane, hanno raggiunto i 1000 microgrammi al metro cubo, incomparabili con la soglia di 25 fissata dal WHO (World Health Organization). Come è noto, l’inquinamento massiccio è un problema di scala nazionale e non riguarda solo la qualità dell’aria, ma anche dei fiumi e dei suoli. Nell’affrontare la questione, le autorità governative hanno finora adottato la strategia del serpente, aggirando dove possibile le pressanti richieste della popolazione e approfittando diplomaticamente della nuova coscienza green del Paese per proporre faraonici piani di investimento nei settori della green economy.

Il secondo episodio è di natura differente ma in realtà è intimamente collegato al primo. Il distretto industriale di Wenzhou, Zhejiang, una delle punte di diamante dell’apparato dell’industria leggera Made in China, capace di invadere i mercati occidentali con i beni di consumo a prezzi irrisori, starebbe affrontando la peggiore crisi produttiva dall’inizio della transizione a economia socialista di mercato. Il Governo cinese è intervenuto direttamente per iniettare liquidità nel sistema finanziario locale, dove l’impossibilità di accedere al credito è da sempre uno dei principali ostacoli alle attività delle piccole medie imprese. Ma con l’aggravarsi della crisi del primo partner commerciale cinese, l’UE, insieme alla difficile ripresa americana, il tempo dei profitti low-cost, che aveva permesso a tante piccole e medie imprese di sorgere avvantaggiandosi del basso costo del lavoro, sembra finito. Almeno per il tradizionale settore manifatturiero, l’arma di successo del Made in China, e ancora nel 2012, la voce più importante della produzione industriale.

I due episodi sono emblematici rispetto al vero tema che ha caratterizzato il XVIII Congresso del PCC. Aldilà delle lotte fratricide tra le correnti del Politburo, la classe dirigente cinese è chiamata a confrontarsi con quella che a più voci è stata ribattezzata come la seconda sfida epocale del Paese: la trasformazione, o l’upgrading, o ancora meglio, il salto di qualità del modello industriale cinese verso qualcosa di diverso, al momento non ancora propriamente definito.

Il modello industriale cinese e la nuova difficile transizione

Ma prima di arrivare al punto di svolta è necessario procedere per gradi e il punto di partenza è proprio Wenzhou. Questa municipalità sconosciuta ai più è in realtà uno dei centri propulsori della “cintura industriale” cinese: la fascia che, partendo dal Fiume delle Perle del Guangdong, arriva a Shanghai, percorre lo Zhejiang e il Jiangsu, fino a Pechino e i nuovi porti di Dalian e Tianjin. In quest’area costiera si concentra quasi il 70% delle piccole e medie imprese private cinesi, il vero caposaldo dell’economia nazionale, che contribuisce a generare il 60% del PIL e l’82% dei posti di lavori. Wenzhou ha rappresentato in questo senso l’emblema dello spirito imprenditoriale cinese. Lontano dagli obiettivi di pianificazione delle Zone Economiche Speciali, in un’area rurale dello Zhejiang, decine di migliaia di imprenditori hanno trovato fortuna producendo capi d’abbigliamento, giocattoli, accendini, piccoli elettrodomestici, e tutti gli altri beni di consumo che hanno fatto del Made in China un sinonimo globale di prezzi bassi (e spesso scarsa qualità) e produzioni di scala massiccia. Ma il quadro è cambiato con l’aggravarsi della crisi mondiale.

Dipartimenti industriali in Cina. Fonte: Li & Fung Research Centre; The Beijing Axis Analysis.

Dipartimenti industriali in Cina. Fonte: Li & Fung Research Centre; The Beijing Axis Analysis.

Un rapporto del Congresso del Popolo dello Zhejiang ha stimato che dal 2007, il distretto di Wenzhou ha subito una diminuzione dell’output totale del 60,5%. Cifre simili sono riscontrabili anche in altre aree industriali delle provincie orientali, specialmente per quei settori a intensità di lavoro, che erano stati la fonte primaria del vantaggio competitivo cinese.

Basti pensare che l’obiettivo di crescita della produzione industriale fissato per il 2013 dal MIT (Ministero dell’Industria e Tecnologia) è del 10%, di quasi quattro punti più basso rispetto al target di due anni prima, in discesa libera dalle cifre di oltre il 30% del periodo pre-crisi. Ma non è solo la crisi dei Paesi importatori a pesare sulle sorti dell’industria leggera cinese. L’impossibilità di accedere al credito finanziario, troppo veicolato a favore delle industrie di stato, le SOE, e dei grandi gruppi e l’aumento del tasso di cambio del Renminbi sul dollaro (una rivalutazione del 31,5% al netto dell’inflazione dal 2005) sono di certo tra i fattori di incidenza maggiore. Ma le provincie costiere del Paese, Zhejiang e Guangdong in testa, sono da un po’ di anni oggetto di un vero fenomeno di “de-localizzazione” in senso inverso. Quelle che, tempi addietro, erano le destinazioni per antonomasia degli IDE dai paesi OCSE, stanno sperimentando ciò che in Occidente è considerata la conseguenza più nefasta della globalizzazione. L’aumento del costo del lavoro e dei terreni hanno portato infatti molte imprese a spostare i loro centri produttivi verso le provincie occidentali, quelle più arretrate e dove è ancora possibile usufruire di un ampio bacino di lavoratori, ma al tempo stesso verso altri Paesi che concorrono nell’area indo-pacifica a eguagliare il successo dell’economia cinese: Vietnam, Cambogia, Myanmar e Filippine.

Tuttavia, la delocalizzazione non è l’unico lascito negativo della concentrazioni industriali nelle provincie orientali. La deturpazione ecologica e l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali hanno reso l’ambiente urbano invivibile e non più adatto allo sviluppo di nuove realtà produttive. Non è un caso che l’obiettivo principale del governo di Pechino sia lo spostamento dell’ago della bilancia industriale verso produzioni a minor impatto ambientale nei settori hight-tech, ad alto contenuto di innovazione e di ricerca.

Stando allo slogan coniato dall’ex Primo Ministro Wen Jiabao nel 2009, il “salto di qualità” della produzione industriale è, insieme alla crescita economica, uno dei due “liang bao 两 保” o “i fattori da proteggere”. Uno slogan ripreso ad ampie maniche dal XII Piano quinquennale di Sviluppo Economico e Sociale (2011-2015) che ha ridimensionato gli obiettivi di crescita, dando però una vigorosa spinta allo sviluppo di settori eco-compatibili e all’innovazione endogena anche nelle realtà industriali minori. La scelta di Pechino in questo senso si è dimostrata da sempre lungimirante: le spese in ricerca e sviluppo sono passate dal 0.90% sul PIL del 2000 al 1.84% del 2011 e ulteriori investimenti sono previsti nel piano quinquennale proprio per favorire la “de carbonizzazione” dell’economia. Secondo il China Council of International Cooperation on Environment and Development (CCICED) diretto dal Vice-Premier Li Keqiang, uno dei think tank più vicini alla dirigenza di Pechino, la svolta “verde” cinese è in larga parte obbligata dall’obiettivo di crescita duratura. Servono sforzi ingenti per sviluppare il settore dei servizi e favorire l’utilizzo di energie alternative nelle produzioni tradizionali, dove però è la mancanza di innovazione a farla da padrone.

Sostenibilità e innovazione: le sfide del prossimo futuro

Il modello industriale cinese non ha finora sviluppato una capacità di innovazione tecnologica in grado di competere con i “giganti” Stati Uniti, Giappone e Germania. Persino l’India, in questo ambito, sembra avere più carte da giocare. Il modello cinese rimane tuttora ancora sbilanciato verso una forte dipendenza dalla tecnologia straniera (circa il 50% contro il 5% di Giappone e Stati uniti) e da un processo di apprendimento che non si è discostato dall’imitazione. E contano poco i dati sulle esportazioni cinesi sbandierati dal governo centrale, che enfatizzano come le esportazioni in maggior crescita siano costituite dei beni high-tech. In realtà, i dati governativi tendono a trascurare che l’esportazione di questi beni deriva dall’attività prettamente di assemblaggio effettuata in Cina da multinazionali elettroniche straniere, che mantengono la casa madre, nonché tutte le funzioni core di ricerca, design e sviluppo nei Paesi d’origine.

L’anno del serpente per l’economia cinese probabilmente non sarà caratterizzato dalla svolta epocale tanto auspicata, ed è pur vero che la storia cinese insegna che i cambiamenti più importanti avvengono gradualmente, sotto il rigido controllo del potere politico. Il “misurato” obiettivo di crescita del 7.5% potrebbe però richiedere maggiori sforzi rispetto a quelli prospettati per implementare efficacemente il piano quinquennale. Inoltre, l’urgenza di misure concrete anti-inquinamento diventa sempre più pressante, scontrandosi con la necessità di rinnovamento dell’apparato produttivo delle PMI manifatturiere, spesso inefficiente quanto vorace di risorse, nonché tra le cause principali delle emissioni inquinanti delle città cinesi. La difficoltà di far coincidere il rinnovamento tecnologico con un piano di sviluppo ecologicamente sostenibile sarà la sfida che accompagnerà la nuova classe dirigente cinese, almeno per il prossimo anno. Spetterà al nuovo presidente determinare quale sfumatura astrologica cogliere. Se quella dello yang, che rimanda il problema a tempi più propizi, o quella dello yin, che rinuncia a una parte dell’obiettivo di crescita contingente in favore di un approccio futuro più sostenibile.

* Daniele Villaci è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Pavia)


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