Domande lecite. Talvolta c’è chi stana questi precari della carta e prova a rispondere in maniera anche ottima. Più spesso, però, si affronta l’argomento senza aver prima focalizzato la vera questione: a chi interessa tutto ciò, chi è il nostro referente? Se non si tiene presente questo, si rischia infatti di parlarsi solo addosso – al netto di chi già lo fa scientemente, per vidimare appartenenze ai vari clan intellettuali cercando di entrare nel “giro giusto”. Capita spesso. Della serie: ognuno pensi per sé e veda in quale ghetto bussare. Perché è chiaro che il tema interessi gli addetti ai lavori, ma se il discorso non va oltre, coinvolgendo alla fine chi veramente tiene in mano quelle quarte di copertina, sarà difficile curare il malato. Pertanto, dopo aver raccolto suggestioni da più parti ultimamente, provo a riassumere quello che mi sembra un nodo da sciogliere, se non il problema principale: l’editoria sana di mente deve uscire fuori di sé, parafrasando il titolo di un ottimo libro, e raccontarsi in modo comprensibile, perché allo stato attuale il funzionamento della baracca non sembra interessare affatto quelli che contano: i lettori. Che in fondo hanno già i loro problemi.
Oggi in Italia, infatti, se leggi sei statisticamente uno scherzo della natura, sei meno di una persona, ti manca proprio un pezzo: per la precisione, lo 0.3% rispetto a un normodotato, analfabeta di ritorno. Stando all’ultimo rapporto del Censis, “meno di un italiano su due (il 49.7%) legge almeno un libro all’anno” e “finora non si era mai scesi sotto la soglia del 50%”. Conscio di questa novità, parallela al precipizio di tutti gli indici nelle ultime rilevazioni AIE¹, anche quest’anno ho macinato chilometri alla fiera romana (di ciò che resta) della piccola e media editoria. Il sottotitolo stavolta era “tutte le forme della scrittura”, slogan meno tronfio e quantitativo rispetto alle precedenti edizioni, “ogni anno più fiera”. La recessione ha posto un freno alla decennale propaganda numerica sui dati di afflusso e, non solo per questo, stavolta mi ha permesso di associare all’evento un volto più umano.
Peccato che uno degli interlocutori principali in questa nuova visione – il lettore medio – ad oggi non possa capire di cosa stiamo parlando. Perché, se il cambio di passo verso pratiche editoriali sane e nondimeno remunerative prevede un suo contributo, diciamo che lui ancora non è stato avvertito, deve essere ancora formato. Perché, per dire, lui ci va anche alla fiera e al salone del libro, ma rispetto a questi temi resta confinato al di là delle quarte di copertina, con una percezione falsata dal glamour letterario: si mette in coda per gli autografi, si gode l’ottimo show di Camilleri e torna a casa. Come biasimarlo?
Così, in questo contesto di apparente stallo, c’è chi pensa che la cosa più etica da fare è sopravvivere, ma no. Perché non provare a rendere consapevole questo interlocutore, sensibilizzandolo al tema? Non con tautologiche iniziative di promozione alla lettura, ma con una serie vivace di campagne informative. Se infatti la maggior parte dei nostri connazionali ignora il tema e dà al libro un valore prossimo allo zero (Censis docet) qualunque intervento o sacrificio, e soprattutto le motivazioni che li fondano, resteranno invisibili e non potranno mai coinvolgerlo.
Solo se riusciremo a rivendicare la bellezza delle diversità, delle tante diversità, e solo se riusciremo a spiegare alle persone quel che vedono in una fiera, avremo un consumatore, un lettore critico, proprio come nel modello siciliano di Addiopizzo. Ora se ne esce con la mafia, direte. Be’, anche nell’editoria (sia libraria che giornalistica) esiste una discreta percentuale di omertà, giocata sulla paura dei maltrattati e sottopagati in sordina che vogliono a ogni costo tenere un piede in questo settore, trasformando l’orgoglio e la dignità professionale in una sconfitta morale. D’altro canto, non è obbligatorio lavorare sui singoli casi, aspettare l’eroica denuncia del precario coraggioso, per così dire. Basterebbe far emergere tutti insieme le varie casistiche.
Esempio, su una categoria invisibile ai più e sottostimata nel suo ambiente di lavoro: quella dei traduttori. Pressare – come è stato fatto ultimamente – le redazioni di giornali, radio, riviste competenti e i critici famosi affinché indichino sempre il nome del traduttore quando parlano di un testo straniero: questa buona pratica, seguita in modo sistematico e continuativo permetterebbe alla categoria, semplicemente, di esistere agli occhi del lettore. Così come diffondere la raccolta firme del sindacato Strade per la costituzione di un fondo di sostegno alle traduzioni, o raccontare al grande pubblico la bellezza degli incontri fra traduttori durante le giornate di Urbino.
Mi direte: dando questa informazione, cambierà qualcosa? Il lettore smetterà di comprare il best seller perché sa che il traduttore non è stato pagato equamente? Trasformeremo i non-lettori in lettori, i lettori in lettori forti, e i lettori forti in lettori colti (c’è chi spesso confonde le due categorie) e ‘interventisti’? Non so rispondere, e forse nessuno può farlo adesso. Formare la consapevolezza di una collettività in merito a un tema è già un obiettivo enorme, le cui conseguenze non sono prevedibili prima ancora di accingersi all’impresa. Forse, se si riesce a bucare la quarta e incidere sulla percezione della gente, il resto verrà da sé. So solo che al momento le strade tacciono i nostri nomi accanto a quelli di studenti, professori, operai, esodati, impiegati, medici e compagnia bella. E noi? Non siamo anche noi una bella compagnia?
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¹Scomparsa di medi e piccoli editori (-4,5%); emorragia di lavoratori nell’editoria (-11,6%); diminuzione di libri pubblicati (-9,7%).