L’editoria fuori di sé: cosa c’è dietro le quarte

Creato il 15 dicembre 2012 da Pupidizuccaro

Questa società è in crisi, bene bravo bis. Questa società è stata spesso definita «della conoscenza», sì c’era giunta voce. I lavoratori della conoscenza però non li conosce nessuno, in effetti forse… Ti prego, zitto, per favore! Soliloqui, esternazioni e autocensura: siamo già decentrati nella penombra di un retrobottega. È il regno di editori medi e piccoli, redattori, traduttori, consulenti, grafici, addetti stampa, blogger, giornalisti, studiosi, compagnia bella e bella compagnia, la loro vita agra. Operai del terziario avanzato che dovrebbero avere il polso della situazione forse più di altri, visto che la società si fregia del loro stesso predicato. Eppure, chi sente la loro versione? Alienati da formule aziendali precarizzanti che quasi gli esternalizzano anche l’anima, il sangue e l’identità: dove sono? Trapezisti e acrobati sorridenti del recupero crediti: cosa dicono, cosa fanno dietro le quarte di copertina?

Domande lecite. Talvolta c’è chi stana questi precari della carta e prova a rispondere in maniera anche ottima. Più spesso, però, si affronta l’argomento senza aver prima focalizzato la vera questione: a chi interessa tutto ciò, chi è il nostro referente? Se non si tiene presente questo, si rischia infatti di parlarsi solo addosso – al netto di chi già lo fa scientemente, per vidimare appartenenze ai vari clan intellettuali cercando di entrare nel “giro giusto”. Capita spesso. Della serie: ognuno pensi per sé e veda in quale ghetto bussare. Perché è chiaro che il tema interessi gli addetti ai lavori, ma se il discorso non va oltre, coinvolgendo alla fine chi veramente tiene in mano quelle quarte di copertina, sarà difficile curare il malato. Pertanto, dopo aver raccolto suggestioni da più parti ultimamente, provo a riassumere quello che mi sembra un nodo da sciogliere, se non il problema principale: l’editoria sana di mente deve uscire fuori di sé, parafrasando il titolo di un ottimo libro, e raccontarsi in modo comprensibile, perché allo stato attuale il funzionamento della baracca non sembra interessare affatto quelli che contano: i lettori. Che in fondo hanno già i loro problemi.

Oggi in Italia, infatti, se leggi sei statisticamente uno scherzo della natura, sei meno di una persona, ti manca proprio un pezzo: per la precisione, lo 0.3% rispetto a un normodotato, analfabeta di ritorno. Stando all’ultimo rapporto del Censis, “meno di un italiano su due (il 49.7%) legge almeno un libro all’anno” e “finora non si era mai scesi sotto la soglia del 50%”. Conscio di questa novità, parallela al precipizio di tutti gli indici nelle ultime rilevazioni AIE¹, anche quest’anno ho macinato chilometri alla fiera romana (di ciò che resta) della piccola e media editoria. Il sottotitolo stavolta era “tutte le forme della scrittura”, slogan meno tronfio e quantitativo rispetto alle precedenti edizioni, “ogni anno più fiera”. La recessione ha posto un freno alla decennale propaganda numerica sui dati di afflusso e, non solo per questo, stavolta mi ha permesso di associare all’evento un volto più umano.

È la fisionomia di chi cerca di immaginare il futuro interpretando le tante emorragie di questa congiuntura che, per la svolta digitale, coincide pure con un passaggio epocale a forme sempre più smaterializzate e disintermediate di produzione e circolazione del sapere. Siamo al tipico binomio crisi/opportunità. In tal senso, una delle sorprese più stimolanti – oltre al documento dell’ODEI – è stato il volumetto-manifesto della :duepunti edizioni, Essere editori oggi, che invita a ripensare i termini della questione traendo slancio visionario dal pantano odierno e riflettendo, tra l’altro, su come poter conciliare il diritto alla giusta retribuzione del lavoro culturale con la garanzia della circolazione aperta delle conoscenze e del libero accesso ai beni comuni culturali. Direte: ancora discorsi da addetti ai lavori. Risposta: purtroppo, sì. Eppure, il modello Hypercorpus, la nuova piattaforma digitale sperimentale lanciata dagli editori palermitani, si appella anche al sostegno dei lettori riconoscendogli tanta centralità quanta finora chi produce libri di carta ha sempre riservato ai soggetti interni alla filiera. Imperniato sui valori della bibliodiversità, alla scoperta di un’ecologia editoriale e un’economia collaborativa, il progetto punta a un riordino del sistema che veda l’editore non più in posizione egemone ma come nodo di un’ampia rete che preservi e valorizzi il criterio della selezione qualitativa e la cura dei testi, riconosca effettivamente al traduttore il suo status di secondo autore, pratichi la trasparenza sui meccanismi di valutazione delle opere, di finanziamento pubblico e di composizione del prezzo di copertina, e chieda con forza il superamento dell’attuale normativa fiscale legata al mercato del libro.

Peccato che uno degli interlocutori principali in questa nuova visione – il lettore medio – ad oggi non possa capire di cosa stiamo parlando. Perché, se il cambio di passo verso pratiche editoriali sane e nondimeno remunerative prevede un suo contributo, diciamo che lui ancora non è stato avvertito, deve essere ancora formato. Perché, per dire, lui ci va anche alla fiera e al salone del libro, ma rispetto a questi temi resta confinato al di là delle quarte di copertina, con una percezione falsata dal glamour letterario: si mette in coda per gli autografi, si gode l’ottimo show di Camilleri e torna a casa. Come biasimarlo?

Così, in questo contesto di apparente stallo, c’è chi pensa che la cosa più etica da fare è sopravvivere, ma no. Perché non provare a rendere consapevole questo interlocutore, sensibilizzandolo al tema? Non con tautologiche iniziative di promozione alla lettura, ma con una serie vivace di campagne informative. Se infatti la maggior parte dei nostri connazionali ignora il tema e dà al libro un valore prossimo allo zero (Censis docet) qualunque intervento o sacrificio, e soprattutto le motivazioni che li fondano, resteranno invisibili e non potranno mai coinvolgerlo.

Si potrebbe invece bucare la quarta di copertina raccontando in modo creativo e coinvolgente cosa è diventata la baracca: far sapere che lungo le passerelle fieristiche non tutti gli stand sono uguali e che anche quest’anno stavano accanto indistintamente veri editori indipendenti e altri a pagamento; editori che avallano lo stagismo gratuito e altri che scommettono su un libro con le tasche di autori e traduttori pagati dopo sei nove dodici mesi rispetto a quanto pattuito nel contratto; editori che a volte non pagano affatto e altri che tengono il personale in redazione ingaggiato a progetto o con partita iva anche più di nove ore al giorno; editori simpaticoni che campano di corsi e antologie e compagnia bella (non bella compagnia). Non voglio affatto generalizzare, dicendo che sono tutti mascalzoni perché non è così. Il valore dell’operazione, anzi, sta proprio nell’iniziare a differenziare i soggetti e le problematiche legate al «fare i libri oggi», facendoli emergere dal magma indistinto che impedisce al pubblico di intuire storie dietro le quarte che, in fondo, riguardano anche lui: iniziare a differenziare con cura il sottobosco, fornire delle coordinate semplici per decrittarlo, porterebbe alla formazione di un lettore consapevole. Certo, è un’operazione delicata, visto che ad esempio, per le pubblicazioni accademiche o ultrasettoriali, il discorso sulle sovvenzioni ha un peso diverso rispetto a chi si occupa di narrativa. Ma la linea guida resta: dare trasparenza e visibilità a un mondo opaco.

Solo se riusciremo a rivendicare la bellezza delle diversità, delle tante diversità, e solo se riusciremo a spiegare alle persone quel che vedono in una fiera, avremo un consumatore, un lettore critico, proprio come nel modello siciliano di Addiopizzo. Ora se ne esce con la mafia, direte. Be’, anche nell’editoria (sia libraria che giornalistica) esiste una discreta percentuale di omertà, giocata sulla paura dei maltrattati e sottopagati in sordina che vogliono a ogni costo tenere un piede in questo settore, trasformando l’orgoglio e la dignità professionale in una sconfitta morale. D’altro canto, non è obbligatorio lavorare sui singoli casi, aspettare l’eroica denuncia del precario coraggioso, per così dire. Basterebbe far emergere tutti insieme le varie casistiche.

Esempio, su una categoria invisibile ai più e sottostimata nel suo ambiente di lavoro: quella dei traduttori. Pressare – come è stato fatto ultimamente – le redazioni di giornali, radio, riviste competenti e i critici famosi affinché indichino sempre il nome del traduttore quando parlano di un testo straniero: questa buona pratica, seguita in modo sistematico e continuativo permetterebbe alla categoria, semplicemente, di esistere agli occhi del lettore. Così come diffondere la raccolta firme del sindacato Strade per la costituzione di un fondo di sostegno alle traduzioni, o raccontare al grande pubblico la bellezza degli incontri fra traduttori durante le giornate di Urbino.

Mi direte: dando questa informazione, cambierà qualcosa? Il lettore smetterà di comprare il best seller perché sa che il traduttore non è stato pagato equamente? Trasformeremo i non-lettori in lettori, i lettori in lettori forti, e i lettori forti in lettori colti (c’è chi spesso confonde le due categorie) e ‘interventisti’? Non so rispondere, e forse nessuno può farlo adesso. Formare la consapevolezza di una collettività in merito a un tema è già un obiettivo enorme, le cui conseguenze non sono prevedibili prima ancora di accingersi all’impresa. Forse, se si riesce a bucare la quarta e incidere sulla percezione della gente, il resto verrà da sé. So solo che al momento le strade tacciono i nostri nomi accanto a quelli di studenti, professori, operai, esodati, impiegati, medici e compagnia bella. E noi? Non siamo anche noi una bella compagnia?
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¹Scomparsa di medi e piccoli editori (-4,5%); emorragia di lavoratori nell’editoria (-11,6%); diminuzione di libri pubblicati (-9,7%).