Arrivati fin qui, come nella migliore tradizione manzoniana, è necessaria però una digressione.
In uno dei tanti canali digitali dalla Rai, ho visto la riproposizione di un interessante programma giornalistico del 1980, dedicato al fenomeno nascente delle discoteche e del divertimento notturno inteso come oggetto di indagine sociologica, in un momento significativo della storia del costume (per semplificare, tra la contestazione a De Gregori e Santana da parte degli Autonomi e la vigilia della ripresa dei grandi concerti negli stadi). Alcuni ricorderanno quando, tra la fine dei '70 e gli inizi degli '80, L'Espresso aveva iniziato a dedicare pagine e pagine alla divisione del mondo giovanile di allora, fra "impegnati" (legati alla totalizzazione dell'impegno politico, nato dalla contestazione sessantottesca e arrivato fino al "settantasette") e "travoltini" (affascinati dal nuovo mito della discomusic e delle discoteche). Sembra preistoria, lo so. E in quel programma giornalistico del 1980, si cercava di capire il recondito motivo per cui, lentamente, i giovani stavano cambiando interessi, in una analisi che cominciava a comprendere che la mutazione del costume, il rifiuto della politica rappresentavano, anche e soprattutto, una mutazione (guarda un po') politica.
Dancing days, di Paolo Morando illustra quei due anni nei quali si è verificato il passaggio dalla sbornia del "tutto è politica", a quella che sarebbe stata la sbornia del "rifugio nel privato", con gli annessi inquietanti di una campagna giornalistica iniziata dal Corriere della Sera (allora obiettivo di trame piduistiche) con una serie di lettere al direttore dedicate al tema del tradimento sentimentale. Lettere che erano in realtà scritte dalla redazione e il cui fine era proprio quello di spostare l'interesse della pubblica opinione da ciò che accadeva di preoccupante (strategia della tensione, P2, tentazioni golpiste) nel modo politico a ciò che invece accadeva sotto le lenzuola.
Fine della digressione manzoniana.
L'egemonia sottoculturale, di Massimiliano Panarari è invece il racconto di quello che siamo oggi, dopo la vera e propria vittoria del "privato" e la mercificazione totale di una società e di un paese a metà strada tra arcaicismi e postmodernismi. Seguito ideale del saggio di Morando, L'egemonia sottoculturale racconta di un'Italia trasformata in un enorme casting, dove le strategie politiche vincenti sono diventate lo sbocco naturale di una strategia culturale e comportamentale che ha avuto nel mezzo televisivo il suo "braccio armato". Questo saggio di Panarari è il disperante autoritratto di una nazione (verrebbe quasi voglia di dire gobettianamente: "l'autobiografia"). Una nazione che ha subìto una trasformazione potentissima e forse irreversibile. Già Pasolini aveva compreso i primi segni di una mutazione sociale che, passando dapprima attraverso le pietre (la distruzione del paesaggio rurale e la speculazione edilizia), sarebbe arrivata fin dentro alle anime. Ecco, quella mutazione è ora completa. Panarari può soltanto prenderne atto, con una motivata presa di coscienza che attesta la vittoria della follia situazionista, paradossalmente applicata al capitalismo più aggressivo che ci sia attualmente in circolazione.
In un bellissimo film di Alberto Sordi (Fumo di Londra) di fronte ad una rissa tra mods e rockers, due compassati gentlemen in ombrello e bombetta dicono: "Noi abbiamo fatto di peggio. Abbiamo fatto la guerra."
Noi, che abbiamo assistito alla "tamarrizzazione" e alla "velinizzazione" di quasi tutto quello che ci circonda, non possiamo nemmeno dire quello.
Un libro.
L'egemonia sottoculturale - L'Italia da Gramsci al gossip, di Massimiliano Panarari (Einaudi).