Amici cari, scusate la mia lunga assenza.
Vorrei riprendere il tema di sempre, ossia parlare con voi sulle necessità dell’amore.
Leggendo i giornali, o ascoltando i notiziari, od osservando il quotidiano, ci si potrebbe stupire del bisogno di stare addosso ad un sentimento che tutto sembrerebbe tranne che utile, ma è ovvio che non solo è necessario ma esso costituisce il sale della terra.
Sorge spontaneo l’interrogativo che ci porta a chiederci: “Ma io amo? come posso mettermi nelle condizioni dell’amore? E se questa materia già la possiedo, come la conosco, l’alimento e la conservo?”
Cominciamo col dire che già il fatto di porsi la domanda sul come amare, ci mette su di un livello di salvaguardia; vuol dire che conosciamo il problema, conosciamo il pericolo conseguente la sua assenza, vuol dire che ci stiamo prendendo cura del tema, che ci stiamo organizzando. Che ci stiamo prendendo cura dell’essere e del tempo, del nostro essere e del nostro tempo, perché di questo stiamo parlando, del nostro io e della nostra realizzazione.
Realizzazione non come scalata al successo, ma come esigenza del quotidiano, cosa assai più grave ed urgente.
L’essere e tempo di Heidegger è costato al filosofo una fama non esattamente felice. Senza volere rendere alleggerito uno dei più pesanti pensatori del novecento, mi sorge spontaneo, sia in quanto filosofa che in quanto pensatrice attenta all’ontologia della vita, rendere dei parallelismi tra quello “essere e tempo” (celebre e magistrale) e tra questo (sconosciuto e dubbioso) senso dell’essere e senso del tempo.
La filosofia ed il suo sviluppo non può certo fare affidamento su appoggi ed incoraggiamenti che possano venire dall’apparenza collettiva. Ben poco o quasi nulla dell’ordinario apparente ci stimola a migliorarci, quasi tutto ci induce in un senso contrario, e tuttavia questo distruttivismo del sapere non è che una scusa ridicola che non potrà mai giustificarci e risollevarci dalle nostre mancanze. Ne ha saputo qualcosa Heidegger stesso.
Cosa può fare allora il singolo filosofo (così come l’essere che si interroga) di fronte alla miseria del quotidiano? Di fronte a realtà familiari che possono avere ben poco di gratificante? Di fronte ad un lavoro che non si ha avuto la fortuna di scegliere ma che ci si è trovati ad ereditare da un sistema che fabbrica situazioni di vita nostro malgrado e senza il nostro diretto contributo?
Si cominci con il dire che è utile mettere al bando tutto quello che non funziona, che ci può deviare dal cammino, cercando di circondarci solo di elementi positivi e costruttivi.
Se questo non è ovviamente possibile, sempre e comunque, si può stare accanto gli esseri disturbati e/od assenti alla propria salvezza, cercando di neutralizzarli.
Sul come concretizzare tutto questo, molto dipende dal nostro specifico lavoro, dalla nostra specifica occupazione, dalle nostre energie, dalle nostre aspettative, dalle nostre famiglie, dalle singole condizioni. L’unica cosa certa è che prima si comincia a bilanciare questo assetto e meglio si può guadagnare spazio ed occasioni di crescita.
Premesso che molte cose non potranno mai essere recuperate o migliorate, perché dipendono da un ingranaggio che ha estraniato l’umano riducendolo a presenza/assenza che a sua volta si è resa disponibile per le più varie ragioni ben immaginabili a quest’ opera di macellazione, occorre concentrarsi su uno o due contenuti personali verso i quali spendere tutte le proprie reali e preziose energie.
Nella cronaca storica recente in genere si sentiva dire dai saggi “Può andare tutto storto, ci possono essere difficoltà, ma la famiglia rimane il mio punto di riferimento solido”.
Bene, se la famiglia è ed è sempre stata l’unico vero punto di riferimento per la salvezza di ognuno di noi, chi non ne possiede una, o chi se ne trova improvvisamente sprovvisto/defraudato/spodestato, o chi la possiede ma preferirebbe non averla o è come se non l’avesse, non rientra certo in questo più che condivisibile quadro di riferimento.
Possiamo addirittura scoprire che è la maggiore parte delle circostanze; è l’eccezione e non la regola trovare chi possiede la fortuna di un nucleo familiare in equilibrio. Per la maggior parte si trovano realtà familiari complesse, contorte, squilibrate, non stabili, profondamente fragili, famiglie che tutto possono ritenersi tranne che un solido punto di ancoraggio.
L’avere sani principi che porterebbero dei giovani a crearsi il proprio stato familiare sembra essere diventata una cosa pressoché ardita e rara. Le famiglie usualmente costituite non sono che relazioni che si spezzano alla prima difficoltà. Persino quelle storiche possono andare incontro a smarrimenti e fasi involutive, soprattutto quando queste crisi emergono con superficiale cognizione di causa. Il morbo del volere rimanere disimpegnati e quindi deresponsabilizzati sembra non risparmiare nessuno, sembra non guardare in faccia nessuno, falcia e miete vittime a grande passo e senza esitazioni alcune.
Non vale più in alcuna maniera il detto “La mia famiglia dà il senso alla mia vita”, non per il nostro collettivo.
Dunque le famiglie che sembrano resistere a questo attacco e a questo bombardamento, o sono nuclei familiari solidi, o sono nuclei familiari obbligati, dove risulta praticamente impossibile dissociarsi senza conseguenze da certe contingenze che dettano le regole dei comportamenti e dove le persone stanno unite per pura convenienza e per pura incapacità a fare altro.
Dal possedere una famiglia sana e giusta, al possedere il segreto della felicità, il passo è veramente breve, come dire che non si può essere felici da soli o perché soli, ma sempre con qualcuno, per qualcuno, grazie a qualcuno che si fa dono di sé.
Le necessità dell’amore sono molto oggettivamente e molto soggettivamente potere contare su una persona che in un preciso contesto è/diventa/si candida e viene accettata come la propria famiglia, è il seme fecondo della propria progenie e discendenza, che potrà anche portare/incrociare tutti i più vari imprevisti di percorso e tutte le più varie incognite, senza tuttavia arrivare mai a spezzarsi.
Cerco a questo punto di farmi ragione di tutto quello che può accadere all’interno di questo involucro solido e prezioso che un bel giorno decide di nascere e crescere.
La prima cosa che mi viene di sottolineare è che gli esseri si evolvono, crescono, a volte persino involvono; nel trasformarsi secondo i tempi, le stagioni ed i propri destini, si chiede a questo contenitore fatto per durare nel tempo di resistere agli attacchi dei rinnegamenti.
Non è legittimo osservare che le mutazioni non vanno permesse e comunque sempre negate: ci sono mutazioni assolutamente necessarie, necessità assolutamente inderogabili.
L’amore è un sentimento esigente, preciso, complesso e semplice nello stesso tempo; non si può dare per esso ed in esso nulla di scontato. Se vuole realizzarsi e non negarsi, esso deve sapere a volte perdere, saper farsi minore, saper farsi tollerante; altre volte deve divenire ardito e coraggioso, quasi spavaldo ed insolente al caso. Sempre se vuole rimanere degno di chiamarsi tale.
Ricordo che si sta parlando della stessa identica necessità universale che ci fa solo per questo tutti uguali, realmente uguali, concretamente identici; qui non si trattano questioni che possano esigere precedenze su altre.
La ragione di questo egualitarismo dell’amore è presto detta: non è la durata del tempo che fa un certo legame più prezioso ed imperdibile di altri, ma è la qualità di questo tempo, di questo legame, di questo affetto.
Parlando d’amore infatti si esce definitivamente dai territori banali e scontati della quantità e della certezza, per entrare nei territori misteriosi e aggrovigliati della qualità e del’incertezza.
Se così non fosse la qualità sarebbe scontata e non affatto una merce rara per solo precisi personaggi che si guadagnerebbero questo privilegio a suon di impegno e patimento.
Se solo potessimo immaginare la sofferenza che si cela dietro un grande affetto, non so quanti sprovveduti allineati dentro le fila dei romantici finirebbero per defilarsi furbescamente.
L’amore bello ed assoluto che sempre celebro non è un amore banalmente romantico, infantile e sprovveduto, ma un sentimento tenace, solido, avveduto, maturo, che chiede semplicemente di rimanere nel tempo perché esiste per la vita, e questo non può ammettere che debba essere soffocato perché sconveniente, per la banalissima ragione che non esistono amori sconvenienti, ma solo difficili semmai.
Saper vivere l’amore bello è un’arte che si apprende giorno dopo giorno. Difficilmente si fa di quest’arte una particolare pubblicità, essendo che rimane una questione molto intima e molto personale, tuttavia è questa conoscenza che alimenta l’agire quotidiano. Cosa mai potremmo arrivare a costruire senza l’amore? E cosa invece sappiamo creare con esso?
Mi viene in mente una famosa imprenditrice cinese che è arrivata a gestire il più grande ristorante della Cina, diventando plurimilionaria; lei sostiene di essersi buttata in questa impresa per fuggire da un marito che la maltrattava; io aggiungo che senz’altro inizialmente è stato il suo bisogno di affermarsi a portarla su quella strada (e dunque la mancanza d’amore di cui non possiamo fare a meno), ma che poi a questo iniziale bisogno si è unito il piacere di vedere realizzati i bisogni di molti altri che grazie al nostro agire riescono a guadagnarsi spazio nel mondo.
E’ grandioso vedere persone che acquistano sicurezza anche grazie al nostro operare. E’ grandioso vedere come si può essere utili al prossimo, oltre che a se stessi.
Concludo: il sentimento dell’amore bello può trovarsi sia nei legami che durano da tempo che nei legami che devono ancora nascere o nati da un tempo irrilevante.
Si ripete che non è la quantità che qui detta legge, ma solo unicamente la santa e benedetta e saturnina esigenza dell’essere bello.
Vi abbraccio tutti.
Antonella dallomo
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