Il diktat dell’azienda svedese che vuole ridurre della metà i salari è stata subito interpretata come la prova che occorre “fare le riforme” ossia sbaraccare diritti del lavoro e qualsiasi forma di contrattazione, ridurre al minimo le tutele sociali in modo da ridurre il cuneo fiscale e consentire di tagliare selvaggiamente il costo del lavoro. Insomma le solite cose che si dicono dai tempi di Craxi e che si sono via via attuate con l’unico risultato di vederci scivolare nel baratro: oggi un sesto degli italiani vive con meno di 640 euro al mese.
E queste tesi non sono smentite solo dall’evoluzione delle cose, ma anche dai numeri: il costo del lavoro in Italia è ampiamente al di sotto della media dell’eurozona e va calando vistosamente. La media è di 28 euro all’ora contro i nostri 27,4 cui fanno riscontro i 34,2 della Francia, i 30,4 della Germania, i 38,1 della Danimarca, i 37,2 del Belgio, i 32,2 dell’Olanda: ad esclusione della Francia si tratta proprio e non casualmente dei cosiddetti Paesi ricchi. Per non parlare dei salari in termini assoluti che sono tra i più bassi dell’area Ocse. Tanto bassi che l’azienda svedese ha potuto investire molto meno in tecnologia di processo nei suoi quattro stabilimenti italiani che negli altri sparsi in Europa. E che adesso ovviamente pretende che si crei una situazione polacca per evitare il rinnovamento delle linee di produzione che sarebbe assai meno gravosa in lire come del resto sarebbe molto più concorrenziale concorrenziale la sua produzione.
Dunque la vicenda Electrolux ci dice che il problema non è affatto questo, ma è paradossalmente proprio il contrario, vale a dire i bassi salari e l’arrendevolezza sindacale, la confusione e perdita di senso della politica che nel corso degli anni ha via via reso meno interessanti gli investimenti per aumentare la produttività, soprattutto in rapporto ai facili investimenti finanziari: nel periodo 2001 – 2011 essa è aumentata appena dell’ 1,2 % contro l’11,4% dell’area euro, il 26,1% della Germania. E naturalmente a questo fa riscontro la miseria degli investimenti pubblici, ma soprattutto privati in innovazione e tecnologia che sono un terzo di quelli della Francia e un quarto di quelli della Germania, la metà della Gran Bretagna e via proseguendo.
Quindi anche da questo punto di vista abbiamo perso terreno mentre si auspicava la morte dell’articolo 18, dei contratti nazionali, dei contratti a tempo indeterminato e l’agonia del welfare come medicina salvifica. E tuttavia facendo una triangolazione sui dati reali ci accorgiamo che c’è un elemento che lega tutti gli altri sulla via del disastro: ovvero una produzione a bassa e media tecnologia, polverizzata in una miriade di aziende piccole e piccolissime, poco irrorata da investimenti, ma sbalzata in un mondo con salari e sistema dei prezzi in moneta forte. E non solo: con una divisa che non può essere gestita in nessun modo, che rende impossibile la competitività monetaria e che adesso grazie alla tesi parossistica che il debito pubblico sia il male assoluto così da accontentare le necessità immediate e le prospettive politiche della finanza, ha anche reso impossibile una nuova stagione di investimenti per tentare di recuperare il terreno perduto invece di raschiare ossessivamente il fondo del barile.
Chissà, forse è per questo che la scorsa settimana si è tenuto alla London School of economics un convegno proprio su come affrontare la situazione dopo l’euro e come contrattare l’uscita con gli altri partner. Ma in ogni caso è ormai troppo tardi: il sacrificio rituale sull’altare della moneta unica è già stato consumato e ci vorranno generazioni per uscire dalla geografia balcanica e sarmatica nella quale ci siamo cacciati.